La copertina del libro MaliNati di Angela Bubba
Quando Maria, la madre di Federica Monteleone, risponde alla
fatidica domanda, quella che le fanno tutti: “Perché è morta?” sommessamente dice
di non saperlo. Il momento è struggente. E si guardano. Angela si sente
impotente. “C’è posto solo per il dolore in quell’istante. Il suo dolore, e non
il mio”. Lei non è mamma: “Sono nata ma non ho fatto nascere nessuno, di me e
del mio corpo non so ancora niente perciò”. Ma una cosa la sa: “Quando un
figlio perde un genitore viene chiamato orfano, ma quando un genitore perde un
figlio non c’è nessuna denominazione possibile. Mary, nessuno ha inventato la
tua parola e la mia parola”.
Il libro di Angela Bubba “MaliNati” è un’archeologia della parola. Un viaggio nei codici linguistici cristallizzati nell’abitudine. Li tocca, li annusa e se ne nutre. E racconta. Trova il tempo anche di evidenziare il “patto” tra la parola pensata e la parola detta: “Esiste un patto – parlando con una ragazza all’Università – fra l’attimo in cui una parola viene fisicamente partorita e l’altro attimo in cui essa deve umanamente concretizzarsi. E quel patto non può essere tradito”. Un rincorrersi di emozioni e di pensieri. In divenire. Difficile stabilirne la precedenza. Pensieri speculari. Che amano sostare sulla realtà. E una realtà che fa fatica a distaccarsi dalla terra, la nuda terra della vita. Una fenomenologia ricca di colore e amante di note. Per dare una forma. Uno spazio. Uno spartito. Una voce. Un grido. Un vulcano di percezioni. Che registra ogni movimento. In filigrana l’essere degli uomini che nascono e vivono. Come le parole.
Il libro di Angela Bubba “MaliNati” è un’archeologia della parola. Un viaggio nei codici linguistici cristallizzati nell’abitudine. Li tocca, li annusa e se ne nutre. E racconta. Trova il tempo anche di evidenziare il “patto” tra la parola pensata e la parola detta: “Esiste un patto – parlando con una ragazza all’Università – fra l’attimo in cui una parola viene fisicamente partorita e l’altro attimo in cui essa deve umanamente concretizzarsi. E quel patto non può essere tradito”. Un rincorrersi di emozioni e di pensieri. In divenire. Difficile stabilirne la precedenza. Pensieri speculari. Che amano sostare sulla realtà. E una realtà che fa fatica a distaccarsi dalla terra, la nuda terra della vita. Una fenomenologia ricca di colore e amante di note. Per dare una forma. Uno spazio. Uno spartito. Una voce. Un grido. Un vulcano di percezioni. Che registra ogni movimento. In filigrana l’essere degli uomini che nascono e vivono. Come le parole.
Il libro di Bubba è una fotografia dei calabresi. Di uomini mal
nati. Nati “dove cresce uno strano frutto”. Dove “l’epilessia ha raggiunto un
livello tale che si chiama equilibrio. E ovunque è pace e difesa di quella
pace, in tutti i luoghi l’eccitazione deriva proprio dall’invariabilità”. Un viaggio in Calafrica, Calabria Saudita,
Calabria Esaurita, in Calabrifornia. Fino a Roma. E ritorno. Il male della Calabria
raccontato senza veline. Nudo e crudo. Una passeggiata nel male oscuro. Strano.
“L’unica vera isola italiana, il sud del Sud, quel punto piccolissimo eppure
grandissimo, e che non si vede”.
Il viaggio inizia a Rosarno. Ai vespri dei senegalesi. “Una
stagione all’Inferno”, come ebbe ad intitolare il rapporto di "quelli di Medici senza
Frontiere" ben due anni prima della rivolta. “Serre incartate di corpi e di
sudore, non erano che questo, moribondi che per cucinare e trovare calore
dovevano incendiare del legno o i copertoni di gomma. Anche il cibo che
masticavano gli sapeva di plastica, di sangue rancido. Era come se mangiassero
la loro stessa putrefazione, capisci? Loro erano vermi sfamati da vermi”. Anche
a San Ferdinando dove “oltre seicento immigrati continuarono a stare pigiati come
spazzatura, e nella fabbrica della Rognetta più di trecento corpi non facevano
che tartagliare di desolazione, avresti dovuto vederli, sfibbiati come carogne,
spremuti più delle lettere dentro le frasi di un libro”. Tutti sapevano. E Roberto
Maroni e Agazio Loiero danno il là al “noto parco divertimenti: Non c’entro
io, c’entri solo tu”.
Da Rosarno a Marcellinara, sulla strada dei due mari, da
Catanzaro a Lamezia Terme. La Seteco. Una fabbrica che sprigiona fumo senza mai
spegnersi. Per anni e anni. Nonostante il doppio sequestro della Magistratura. “Un
mattatoio di gas, una fornace che frustava lo stomaco e otturava l’intero
luogo, ogni luogo dentro e fuori di te. La scena di un film: l’auto che
entrava in una nube biancastra, che trapanava e ci si dibatteva all’interno, il
sugo acido che la graffiava emettendo un trillo dragonesco. L’auto che
continuava incredibilmente a muoversi, la scudisciata di salive sintetiche la
tratteneva ma lei procedeva lo stesso”. E poi la puzza. Che riesce a fartela
sentire. “Un impasto tra varechina seccata e pollo arrosto andato a male, un
misto come di agrumi vecchi e tuorli d’uovo marciti sotto il sole”.
È la volta di Crotone. Dove “trecentocinquantamila tonnellate di scorie furono
riciclate e poi vendute come materiale da costruzione, utilizzate per mettere
in piedi palazzi, banchine di porti, piazzali di scuola, asili, parcheggi e
strade. Tutte dislocate nel crotonese, impastate in una miscela di rame,
cadmio, nichel, arsenico, piombo, mercurio. Un’immensa distesa di morte e
radiazioni. Crotone in una sola parola. Per alcuni la città di Pitagora mentre
per altri la città dei veleni, la città senza salvezza e senza supereroi”. Fermata a Capo Colonna. “C’è un abbandono
spettrale”. L’unica cosa viva è la schiena di un uomo che usa una motosega. “La
corsa dei suoi nervi liquidi dev’essere l’unica cosa viva fra la Terra, il Mare
e il Sacro”, i tre mondi dell’antico tempio di Hera Lacinia.
Gli “Occhi che non si chiudono” sono quelli della madre di
Federica. Un travaglio di parole. Consonante dopo consonante. Vocale dopo
vocale. Che dà voce al racconto. Una voce che senti quando leggi. La
vedi. Un lamento ancestrale. Misterioso e aderente ad ogni madre e ad ogni figlio.
“Voglio dire che chiudere gli occhi è un atto magico. È una volontà e una
libertà. Beati quelli che possono ancora chiudere i propri occhi… Poter chiudere
gli occhi e dormire, dimenticare, avere il diritto di poter abbassare il capo
contro qualunque luogo e dire che ora si può dormire… si può riposare e si può
chiudere gli occhi”.
A Roma. All’Università. Qui il male calabrese è maturo. Trova
consolazione in tutti i meridionali. E riconoscenza da quelli che non lo sono. A
Monti Tiburtini c’è un cartello. “Appena lo vidi mi fermai, divenni una farina
patetica senza più grasso o fantasia. Non respiravo più. C’era scritto che non
si affittano case ai meridionali, io lo lessi più volte, mentre balbettavo le
sillabe mi auguravo che fossero sbagliate ma m’illudevo”. L’ammonitrice era “un’orgogliosa
signora di mezza età”. Aveva “i capelli color lampone e la montatura degli
occhiali verdastra, le sue dita scoppiavano di anelli”.
Un male che si confronta. E si amplifica. È il disagio di
tutti i giovani.
I pensieri “Interrotti” si concludono con il testamento dell’autrice.
Ad un vecchio che le chiede cosa vuole fare. “Ti rispondo, allora, anche se per
rispondere devo cambiare verbo. Non voglio, oggi, in Italia, ma devo. Il domani
che devo vedere da qui, dal cemento del mio tubo, si chiama oppressione,
schiavitù, call center, precariato, favoritismo, si chiama assunzioni che solo
se sei figlio di o amante di o nipote o pronipote di le puoi definire tali. Questo.
Fammi gli auguri, vecchio”. Disillusione
e disperazione. “Come molti altri non mi sento arrabbiata, ma tradita. La mia
testa non è che un vespaio di materia irrancidita, una carne che si sta già
macellando. Ci sentiamo traditi, mentre viviamo ci sentiamo già in estinzione. Noi
non siamo che bestie braccate nell’utero di nostra madre, sbattute in quel punto
col solo fine di non nascere. Il nostro dovere è questo. Arrestarci alle soglia
di una vagina mostruosa proprio perché insuperabile, essere ributtati all’indietro
come se fossimo implosi. Non voluti. Da ventiduenne, è questo quello che sento
di essere insieme a molti altri. Argilla viva ma sprecata, non rispettata”.
MaliNati di Angela Bubba.
1 commento:
Letto. Quando un figlio perde un genitore viene chiamato orfano, ma quando un genitore perde un figlio non c’è nessuna denominazione possibile. Mary, nessuno ha inventato la tua parola e la mia parola. Avevo già letto questa frase, forse in altre occasioni della Seteco. Bene. Drammatico. Ma la drammaticità è d'obbligo in questi ambiti.
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