Vent'anni racchiusi in pochi secondi. Quanti sono bastati
per citare la formula di assoluzione di tutti gli imputati nel processo di
primo grado sullo stabilimento tessile "Marlane" di Praia a Mare.
"Il fatto non sussiste" e "insufficienza di prove", questi
gli articoli grazie ai quali sono stati prosciolti da ogni accusa. Erano
undici, tra dirigenti e responsabili dell'azienda di proprietà del Gruppo
Marzotto, gli indagati a vario titolo per omicidio colposo, lesioni gravissime,
omissione dolosa di cautele sul lavoro e disastro ambientale. Carlo Lomonaco,
responsabile del reparto tintoria, dirigente dello stabilimento ed ex sindaco
della cittadina, per lui la procura aveva chiesto dieci anni di reclusione.
Silvano Storer, amministratore delegato; Antonio Favrin, amministratore
delegato; Jean De Jaegher, amministratore delegato; Attilio Rausse, responsabile dello
stabilimento; Lorenzo Bosetti, vicepresidente esecutivo della società ed ex
sindaco di Valdagno (VI); Vincenzo Benincasa, responsabile dell'impianto;
Salvatore Cristallino, responsabile del reparto tintoria; Giuseppe Ferrari,
responsabile dello stabilimento; Lamberto Priori, amministratore delegato.
Infine, il patron dell'impero della stoffa: Pietro Marzotto. Per lui i pubblici
ministeri, Maria Camodeca e Linda Gambassi, avevano chiesto sei anni di
reclusione.
L'ex sindaco di Praia è scoppiato a piangere durante la lettura del dispositivo. Stupore e commozione anche tra i suoi ex colleghi. Una camera di consiglio fiume, iniziata alle 9 di questa mattina e finita stasera alle 19 e 45. Nel corso della giornata davanti al Tribunale un gruppo di manifestanti ha ricordato gli operai che hanno lavorato presso lo stabilimento e che sono morti o si sono ammalati di tumore. Cento e sette in tutto. Un'attesa snervante che ha scritto la parola fine ad una pagina lunghissima di storia industriale calabrese di fronte all'isola di Dino nel mar Tirreno. Iniziata negli anni '60 per volere del Conte Stefano Rivetti, piemontese, grazie ai fondi della Cassa per il Mezzogiorno. Continuata con il Gruppo Eni - Lanerossi Spa nel 1969. Passata nelle mani della veneta Marzotto Spa il 29 settembre 1987. E poi chiusa nel 2004.
L'ex sindaco di Praia è scoppiato a piangere durante la lettura del dispositivo. Stupore e commozione anche tra i suoi ex colleghi. Una camera di consiglio fiume, iniziata alle 9 di questa mattina e finita stasera alle 19 e 45. Nel corso della giornata davanti al Tribunale un gruppo di manifestanti ha ricordato gli operai che hanno lavorato presso lo stabilimento e che sono morti o si sono ammalati di tumore. Cento e sette in tutto. Un'attesa snervante che ha scritto la parola fine ad una pagina lunghissima di storia industriale calabrese di fronte all'isola di Dino nel mar Tirreno. Iniziata negli anni '60 per volere del Conte Stefano Rivetti, piemontese, grazie ai fondi della Cassa per il Mezzogiorno. Continuata con il Gruppo Eni - Lanerossi Spa nel 1969. Passata nelle mani della veneta Marzotto Spa il 29 settembre 1987. E poi chiusa nel 2004.
Una sentenza difficile da ribaltare, visto che il presidente
del Tribunale di Paola, Domenico Introcaso, è anche presidente della Corte
d'Appello di Catanzaro.
Sgomento e incredulità tra i familiari degli ex operai e gli
stessi avvocati delle parti civili, tra cui i Comuni di Praia a Mare e Tortora,
il WWF, Legambiente, Medicina Democratica, la stessa Regione Calabria.
Aspettano di leggere le motivazioni che saranno rese note solo tra novanta
giorni per commentare una sentenza che tutti aspettavano da vent'anni. Giovanni
Moccia, presidente del comitato per le bonifiche della terra, dei fiumi e mari
di Calabria, è disilluso: "Come per la sentenza Eternit di Casale Monferrato
anche questa di Paola dimostra che è sempre più difficile in Italia lottare per
avere giustizia quando ci sono in ballo il diritto alla salute e la
salvaguardia dell'ambiente" La segreteria del Partito dei comunisti
italiani del Veneto, dove anche lì gli stabilimenti Marzotto sono nel mirino
dalla Procura, argomenta: "Al processo Marlane, tutti assolti!
Evidentemente, a Praia a Mare non è morto nessuno. Non è successo niente.
Nessuno ha inquinato. Nel nostro paese i lavoratori e i loro diritti non contano
più niente. Eppure, i morti ci sono, i malati anche, l'inquinamento pure. I
colpevoli e la giustizia sembra proprio di no." Un'assoluzione piena,
dunque. La mancanza di prove adottata nel prosciogliere gli imputati evoca il
tenore delle dichiarazioni rilasciate dall'ex senatore della Repubblica,
Giancarlo Pittelli, nell'arringa in difesa di Giuseppe Ferrari. "La
principale caratteristica di questo processo è che le prove non c'erano nemmeno
nella fase preliminare e si è trasformato il procedimento in aula nella sede
della ricerca delle stesse e non del contraddittorio".
Quel filo di lana
C'è un filo di lana che lega tutta l'Italia, da Nord a Sud.
È di marca. Si chiama Marzotto. Dal Veneto alla Campania. Dalla Campania alla
Calabria. Un esercito di migliaia di operai che ha lavorato per il gruppo
tessile. Più di cento i morti e gli ammalati di tumore. Tante storie di dolore
che sono al centro del processo di Paola conclusosi con l'assoluzione di tutti
gli imputati. Nell'introdurre la requisitoria, il 20 settembre scorso, il
pubblico ministero Gambassi ha provato a tracciare un paradigma della vicenda
giudiziaria: "Racchiude una sintesi della vita di molte persone, di uomini
e donne che hanno prestato la loro opera di lavoro nella fabbrica tessile
Marlane di Praia a Mare". Un corteo di testimonianze di quella "non
rara coesistenza tra il bene ed il male, tra, nello specifico, un'occupazione
che dà e ha dato sostegno a quelle famiglie, ma che allo stesso tempo ha
nascosto rischi e ha generato anche dolore". Emblematica, per il pm, è la
storia di Giuseppe Console: ha lavorato in quella fabbrica dal '69 al 20
ottobre 1992, giorno della sua morte, raccontata dalla moglie: "La mia
fabbrica" diceva, la stessa fabbrica che l'ha ucciso".
Lo stabilimento, secondo le accuse, avrebbe compromesso anche
l'ambiente circostante, non solo la salute dei suoi dipendenti. Per il pm
Maria Camodeca, il disastro "deve essere considerato ancora in corso di
consumazione, in quanto la contaminazione dei siti industriali e zone ad esso
limitrofe ha assunto caratteristiche di potenza espansiva del danno e di attitudine
a mettere in pericolo l'ambiente, tale da poter essere ipotizzata come disastro
tuttora in corso per la permanenza sul suolo delle sostanze pericolose
riversate in modo massiccio." Nello stesso recinto antistante lo
stabilimento. Sulla spiaggia, nel mare cristallino dell'isola di Dino.
Nel corso del processo il Gruppo Marzotto ha proposto una
transazione economica ai familiari delle vittime della fabbrica di Praia a
Mare. Dai 20 ai 30 mila euro. Le parti civili, sfibrate da vent'anni di attesa
e spaventate dal rischio prescrizione, hanno accettato. Tutti, salvo la figlia
di un ex dipendente, Angelo La Neve, deceduto nel 2004. Per lei, Teresa, si è
trattato di una "beffa". "Il danno di aver perso papà e la beffa
di un compenso dato solo per mettere a tacere le persone che potevano dire ciò
che non volevano venisse detto."
Spostiamoci più a Nord. A Salerno. Qui sono 1.200 gli operai
che sarebbero stati esposti all'amianto nello stabilimento Marzotto Sud. Lo
accerta una perizia del Tribunale. Ed è un batti e ribatti di ricorsi, in
totale mille, contro l'Inps e l'Inail per il riconoscimento dei dovuti aumenti
pensionistici. Per circa un centinaio di casi l'Istituto previdenziale ha
sollevato dubbi procedurali e ha spedito l'incartamento in Cassazione.
Ma la vera patria di Marzotto è in Veneto. Nel triangolo
vicentino e "marzottino". A Valdagno, a Schio e a Piovene Rocchette.
A Valdagno la statua in memoria del Conte Gaetano Marzotto, fondatore
dell'impero, negli anni delle lotte per i diritti dei lavoratori, nel 1968,
venne buttata giù dagli stessi operai perché sottoposti a ritmi di lavoro
massacranti e poco retribuiti. Oggi è diverso. Oggi è la salute il diritto da
salvaguardare. Almeno venti le persone che sarebbero state colpite
dall'amianto. Secondo l'esposto presentato da Medicina Democratica, gli operai
non sarebbero stati forniti di sistemi di protezione.
Il campanello d'allarme nella comunità scatta nel 2009.
Quando il partito dei Comunisti italiani e l'Unione sindacale di base leggono
un trafiletto di giornale sul caso Marlane in Calabria. Indagano. E scoprono
che si tratta della stessa fabbrica tessile di Marzotto. Nel febbraio 2012
promuovono un appello per la Calabria: "Verità e Giustizia per i morti
della Marlane". La prima firmataria è Margherita Hack. Poi a seguire
Franca Rame ed Ascanio Celestini.
"Certe volte mi faccio schifo da sola. L'altro giorno
stavamo pranzando a casa e dal naso è iniziato a colare sangue." Inizia
così l'emorragia. Sono le dichiarazioni shock rese in anonimato da un'ex
operaia dello stabilimento Marzotto di Piovene Rocchette. Ha una perforazione
al naso. Una patologia che ha contratto, secondo i medici che l'hanno visitata
dopo che fu licenziata, nel reparto di stracannatura, cioè dove
"arrivavano le rocche (gomitoli di lana) colorate ancora fumanti dalla
tintoria." Ed è qui che "ho respirato paraffina a tutta carica".
La sua testimonianza non c'è nel fascicolo aperto dalla Procura di Vicenza. Non
fa parte dei 21 casi che si trovano sulla scrivania del pubblico ministero,
Gianni Pipeschi. Ha paura di denunciare. "Lo faccio per i miei figli. Per
le conseguenze che potrebbero pagare," dice.
1 commento:
una vera vergogna per le persone morte e per i familiari rimasti, e questa sarebbe giustizia? 20 anni per questa sentenza
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