16 gennaio 2009

Mario Martino e il destino degli spiriti calabresi sconosciuti




















“SUNNU miegghiu dui pacci ‘nta nu mundu ‘i sapienti ca dui sapienti ‘nta nu mund’i pacci!” Così rispose Achille Curcio a Mico Ammendolia quando gli presentò Mario Martino, come autore dialettale, osservando mordacemente, ma benevolmente, che anche lui, Martino, aveva bisogno, come il già famoso Curcio, di un posto a Villa Nuccia, un ospedale psichiatrico del capoluogo. Una battuta di spirito, detta senza pensarci più di tanto, che racchiude tutta l’ironia e la brillantezza della poesia calabrese volgare si, ma che, come dice bene Angelo Di Lieto, nella sua presentazione, riverbera “sempre quel soffio di vita dei poeti greci che inconsciamente sopravvive e che stranamente ritorna ed emerge”. La “Storia della culturale dialettale e dei poeti calabresi dalle origini ad oggi” di Mario Martino arriva fino al XXI secolo, il suo secolo. È un viaggio storico dai primordi, quando la Calabria era solo stirpe “messapica”, poi divenuta “vitalica”, continuando attraverso il medioevo, il risorgimento, il brigantaggio, l’Unità d’Italia, il fascismo, fino ai giorni nostri. È un viaggio che risponde anche alle categorie scientifiche di testo di studio, laddove suggeriscono il distacco dallo stesso. Certo, quando questo è possibile, grazie alla lontananza spazio-temporale, ma quando, invece, la storia la si tocca con mano, come è capitato all’autore, raccontando dello stesso Achille Curcio, “uno dei più rappresentativi “vernacolari viventi”, o di Nino Gemelli, tra i maggiori artisti di teatro dialettale, scomparso lo scorso 1 gennaio 2008, ha fatto in modo che anche i ricordi personali divenissero storia. Ha forzato il procedimento scientifico del distacco, ha preteso che anche le sue memorie meritasse ugualmente gli onori della storia. D’altro canto, non parlarne, sarebbe stata una lacuna grande. Una mancanza imperdonabile. E poi, non tutti gli autori hanno avuto la fortuna che ha avuto lui, di “essere stato amico fraterno” di tali grandi letterati. Una fortuna che poi si è tramutata in “nostalgia” per la loro scomparsa. Come il caso di Ciccio Viapiana che lo ha conosciuto quando questi un giorno all’uscita del teatro Masciari, da fumatore incallito, gli chiese “Mi faciti appiccicàra”. Mario Martino si considera un “fortunato” per essere stato, recitato, al loro fianco. Tuttavia, nonostante la pregevolezza della sua “Storia della culturale dialettale e dei poeti calabresi dalle origini ad oggi”, Angelo Di Lieto, a proposito, è più preciso: “Mario Martino, da fine e originale poeta vernacolare, da attento e acuto realizzatore in dialetto di commedie e di storie-leggende sulla Calabria, sincero amante del teatro popolare, con competenza e selettiva valorizzazione, ha saputo connettere un’inusitata ricca Storia della letteratura e della cultura calabrese”. Eppure, Mario Martino per far pubblicare il suo lavoro ha avuto bisogno di un editore “straniero”, non calabrese, un romano, Herald Editore. Il suo lavoro lo avrebbero pubblicato tutti i suoi conterranei. Ma nessuno ha avuto il coraggio di scommettere su di lui anticipando le spese di stampa. Il romano, il forestiero, invece, non ci ha pensato due volte, ha fiutato l’affare, e anche, visto giusto su un lavoro “sublime”, per dirla ancora con Di Lieto. Tuttavia questa circostanza pare essere connessa con il “vissuto” degli stessi poeti che racconta, quelli calabresi, fin dai primordi. Storie di poeti analfabeti, come Michele Rizzuto, cosentino, vissuto nell’800, che però “aveva una formidabile e sconcertante memoria che realizzava a braccio le sue mordaci satire e di improvvisare lunghissime e romantiche rime”. Storie di poeti poveri che mangiavano poco pur di pagare le spese per la stampa dei propri lavori. Storie di briganti durante il risorgimento. Dei loro messaggi di richieste di denaro destinati ai grandi proprietari, i loro “pizzini”, diremmo oggi. Storie di emigrati che non dimenticarono mai la loro terra, continuando a poetare in vernacolo. Come Michele Pane, nato nel 1876, passato alla storia come “l’Usignolo del reventino”, che dalla lontana America così scriveva: “…Ca’ si sugnu luntanu ntra la ‘Merica Sempre vicin’a tie ‘st’arma mi sta!” Anche Mario Martino paga il suofio, per il suo amore per la Calabria, alla stregua dei poeti che ha narrato. Nessuno della sua terra ha scommesso su di lui, sulla sua storia, sulla nostra storia. Ma non si duole, perché dalla sua ha la ricchezza del ricordo dei “grandi poeti calabresi” che ha conosciuto. Una ricchezza senza prezzo.

già pubblicato su Il Quotidiano della Calabria il 31 dicembre 2008

1 commento:

Anonimo ha detto...

...e i pacci, appunto