di Romano Pitaro*
Eccolo lì, in mutande e a petto nudo, a pisciare, pure col caldo africano, le sue malefatte quotidiane. Le ha strapazzate cosi, e la voce si è sparsa per il circondario, il sindaco di uno dei borghi che dalla collina cotta dal sole scrutano il mare di Scilla e Cariddi; al mattino, trotterellando, il sindaco s’infila nel bar della piazza e chiede un caffè, “nel bicchiere Totò!”, posa lo sguardo sul vecchio con la testa incartata nel giornale e poi, facendosi udire da tutti: “Che malefatte ha pisciato oggi l’amico nostro ?”.
Lo vedo, gli occhi ficcati nel monitor del computer caffelatte, io che sono cieco e gli articoli del giornale me li faccio leggere da mia sorella che, in virtù di questa gravosa cortesia, su di me esercita un potere assoluto, anche se un cieco, in realtà, che potere ha?
Nel soggiorno di un appartamento di tre vani, lo vedo, al quarto piano del palazzo di cemento grezzo mai finito, come i tanti che imbrattano la marina. Gli appartamenti di sopra e di sotto al suo sono inabitati, ed Andrea, in attesa che i suoi parenti australiani decidano di completare la costruzione, occupa le tre stanze destinate al guardiano della prima ditta che aveva iniziato i lavori.
Sembra il dopo catastrofe la sera il palazzo deserto, l’assenza di rumori è come assenza d’ umanità. C’è una sola boccata di speranza, l’affaccio sullo Stretto che ipnotizza lo sguardo. Quel mare che tra le onde occulta miti, eroi greci e donne con sei teste che assassinano i naviganti, si lascia ora placidamente solcare da nuovi mostri marini carichi di container. Dal balcone senza ringhiera, la mattina Andrea prova a stringerlo nel pugno ed è un mistero quando apre la mano e non ce l’ha.
Un tavolo di castagno in buone condizioni è la scrivania, un divano rosso a zampa di cavallo di tessuto resistente ma con un paio di scuciture laterali, regalo di un suo zio convinto dalle figlie a disfarsene, e sparsi qua e là, sul pavimento e in una libreria dell’Ikea lì lì per cedere, i libri su cui ha studiato a Roma per diventare dottore di filosofia con una tesi sulla dialettica della comunicazione della verità nel pensiero di Soeren Kierkegaard.
L’immagine di sua madre sul davanzale della finestra, da lei ha ereditato gli occhi azzurri, il naso aquilino e un ettaro di vigna inselvatichita. Accanto a quella della madre la foto del padre sparito prima che lui nascesse. Su quella foto Andrea ha meditato a lungo. Versato lacrime la sera sotto le coperte, s’è illuso, stringendola fino a tormentarla, che tornasse, ricco, grasso, sgangherato, senza una gamba, disperato; ma tornasse!
La speranza di ritrovarlo non è mai morta. Perciò Andrea è diventato, appena ha scoperto il fascino di quel diavolo d’Internet, un navigatore specializzato. Un argonauta che non va a caccia del vello d’oro sulla celebre nave ma un geniale cacciatore di notizie e informazioni. E ogni tanto del padre. E’ diventato un esperto di segreti informatiche e ancora i suoi amici lo chiamano da Roma per ragguagli, quando incappano in una trappola del cyberspazio. Andrea si muove a suo agio nel mondo della rete, lo stuzzica la realtà scissa dalla materia e lo spazio e il tempo condizionati solo dai desideri. Scova dati, episodi cestinati dalla memoria recente e curiosità con cui arricchisce i suoi articoli. C’è un punto debole nella rete onnipotente: non gli dà notizie del padre.
Ogni volta, prima di chiudere il computer, digita senza neanche guardare i tasti un nome: Vincenzo Pecora. Benché il patto stretto con la rete sia di quelli per la vita e per la morte, il mondo immateriale finora non l’ha appagato. Invia il nome di suo padre nell’intrigo elettromagnetico dove se capita che Aristotele incroci Marx e Giasone prenda un caffè con Brecht, non è detto che lui non possa imbattersi nel padre.
E intanto piscia i suoi articoli. Le malefatte si sommano e recano la sua firma. E’ un collaboratore esterno del giornale locale, pagato poco ma s’è guadagnato la stima dei suoi colleghi della redazione e i suoi articoli non passano inosservati. Nomi e cognomi di amministratori insipienti che assumono comandanti di vigili senza che il comune abbia neppure un vigile, furbizie quotidiane messe a nudo con puntiglio e circostanziate, delibere comunali che violano leggi, depuratori che non funzionano, espropri di terreni non leciti e altri non portati a compimento per paura.
Un articolo al giorno un nemico in più. Perché qui la gente, se gli vai contro, mica te lo viene a dire quel che pensa, no caro Andrea: qui te li fai nemici per la vita! E iniziano da un banale disguido gli oscuri intenti. Una sera torni a casa e non sai neanche chi e perché ti assesta una coltellata nel costato.
Io che sono un vecchio cieco, e che l’ho in simpatia, ho anche tentato di farglielo capire, ma lui stupidamente ride. Ride, e invece dovrebbe preoccuparsi. Quando provo a spaventarlo, “Guarda che ti spezzano le gambe!”, mi risponde come un gallo impettito “Ma quale mafia, la mafia con la m grande serve a chi fa le conferenze al Nord. Qui io vedo solo rozzi vaccari diventati ricchi grazie al silenzio della gente. Fanno il bello e il cattivo tempo perché nessuno li mette in carcere e butta la chiave”.
Secondo me Andrea ha letto troppo. Ed è stato lontano per dieci anni. Si è dimenticato delle usanze di qui. Io neanche tento di capire cosa sia la “Critica della ragion pura” che lui infila nei suoi articoli, anche in quelli che danno notizie di fogne a cielo aperto e il mare zozzo, e quando mia sorella li legge mi domanda quale sia il nesso tra una fogna che finisce nel Mediterraneo e Kant, le cui parole fanno da sfondo al desktop del suo computer: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
Non c’è un nesso, Andrea è pazzo. Io che ho conosciuto sua madre prima di suo padre, che l’ho avuta per amore e da lei sono stato amato, so bene quel che dico: la pazzia è un verme che appartiene alla sua razza; la madre era bella e pazza, cosi pazza che di colpo ha smesso di vedermi per maritarsi con un poco di buono di sicuro finito in un pilastro di cemento. E voi lo sapete, contro la pazzie nulla si può!
L’articolo pubblicato oggi dal giornale è più grave di uno sbocco di fogna a mare e del suo fetore pestilenziale. Più grave di un delitto, è mettersi sotto i piedi il tabernacolo e sputarci su. Chissà se il pazzo se n’è reso conto. Lo vedo, a volte i ciechi vedono di più, andare all’appuntamento con Turi, il guardaspalle di Angelo Pignataro. Prima di uscire dal palazzo disabitato, lo vedo arrotolare le venti sigarette con tabacco Old Holborn, una accanto all’altra custodite nella scatola di metallo che poi s’infila nella tasca della giacca. Anche la fissazione di farsi lui le sigarette è un’altra stravaganza.
Lo vedo mentre due tarchiati ceffi lo stringono dalle braccia e altri due lo scuotono con schiaffi e pugni, e la bocca è un grumo di sangue misto alla sabbia della spiaggia del Lido degli Aranci dove gli hanno dato appuntamento; uno dei quattro gli sussurra all’ orecchio: “Sei un cane malato. Ora vediamo se scrivi ancora su quella carta di merda. Se ci provi ancora ti facciamo sparire come è già accaduto a qualcuno della tua famiglia”.
Lo vedo ridestarsi, neanche il dolore della schiena spezzata dalle bastonate lo trattiene: s’aggrappa alle gambe di Turi. “Cos’hai detto? Spiegati meglio Turi”. Ora non vuole sapere più dell’intreccio tra il parlamentare ex assessore della Regione e Angelo Pignataro, che secondo le intercettazioni trattava il politico come un burattino e lo usava per vincere le gara d’appalto per i lavori di rifacimento della strada statale. Ora pestato a sangue Andrea dei lavori pubblici se n’infischia. Chiede del padre che non ha avuto.
E Turi, l’ex boscaiolo in pensione da quindici anni, ha le risposte che neanche Internet possiede. Tra il virtuale e la vita vera in un istante scorrono nella sua mente immagini di vacche, capanni di contadini, coltelli affilati e la rudezza di un linguaggio arcaico che, quand’è violento, sembra uscire dall’oltretomba.
Turi capisce cosa chiede Andrea perché sa la risposta. E si china, lo afferra dal mento come se con la grossa mano uncinasse un agnello, per guardarlo negli occhi gonfi: “Era una merda! Le merde fanno la fine che meritano…Tu ora sai come comportarti. Noi facciamo cemento pure a tia se ci fai incazzare, per ora considerati fortunato perché c’è un santo che ti protegge”.
Vedo anche, io che vivo nel buio, Angelo Pignataro che legge l’articolo di stamattina dove sono snocciolati anche i consigli che lui dava all’onorevole per telefono. Lo vedo mentre legge il titolo, gli occhi affilati, rapido arriva alle ultime righe con la sigarette incenerita fra le labbra; mentre si ferma incredulo, lo vedo, in piedi nella cantina della sua casa bunker, immersa tra i faggi e le querce, dove s’incontra coi suoi sgherri più fidati. E ora non spiccica una sillaba. Ma pensa, e subito minimizza, dato che Turi impreca. “Dobbiamo fermarli questi porci”. Ma lui, Angelo, carezzandosi la barba fulva: “Non dire puttanate Turi. Quietu! Statti quietu. Non ti caricare che non serve”.
E Turi, che è largo di complimenti con chi offende il suo padrone, si sfoga a colpi di bestemmie all’indirizzo di Andrea Pecora. E scomoda i santi, “tutti i santi!”, esplode. Incrociando lo sguardo del suo capo si zittisce. E spiega che il suo, caro compare Angelo, non è il punto di vista di uno che è giustamente incazzato, ma è un punto di vista che ha in sé una verità da non sottovalutare. Ha messo insieme due tre frasi Turi che hanno suscitato approvazione negli altri due malandrini seduti al tavolo a bere vino; è segno che s’evolve Turi, che è capace non solo di accoltellare chi viola le sue regole, ma anche di darsi una strategia. “Di questo passo, i nostri nemici, si credono che noi siamo imbecilli e non sappiano neanche ammutare un cotraro che ha l’occhio spavaldo, e pare che ti vuole prendere in giro anche quando ti chiede scusa; perché, è vero, compare Angelo, quello non chiede scusa neanche quando chiede scusa. Ha il sorriso puttanesco. Ora ha scassato la minchia. Voi lo sapete che lo fa apposta a comportarsi cosi, per guadagnare tempo e sparare sentenze, ma lui è un giudice forse? No, e neanche i giudici fanno le sentenze come le fa lui, che c’è sempre un varco, una speranza, un motivo di tranquillità. Lui invece caca come gli viene su questa carta che non è buona per pulirsi il culo. Vede le cose, le infila una dietro l’altra, e le scrive. Ma noi siamo cosi stupidi da non capire che quello ci ha puntato? E che se non glielo andiamo a dire non mollerà? “
Angelo Pignataro evita la trappola di Turi. Non si scalda. “Non correre Turi, non dire cazzate. C’è tempo, e poi oltre a noi queste schifezze chi le legge? Pochi, e poi tra qualche giorno è ferragosto. Ma tu diglielo ad Andrea, vallo a trovare, che io sono dispiaciuto, diglielo a modo tuo, come ti viene a te, senza esagerare. Capisci? Non deve sapere che noi il suo gioco l’abbiamo inquadrato, noi dobbiamo capire chi lo muove”.
Turi annuisce, sa che non può insistere. Turi “u surdu”, cosiddetto per via di un orecchio bucato da un proiettile dieci anni fa durante un pranzo in montagna, stavolta non capisce. Quale gioco c’è da scoperchiare ancora? Perché il suo padrone non gli consente di scannarlo quel cotraro maleducato? Non disubbidisce mai Turi. Perché compare Angelo per lui è come un padreterno. E ai padreterno si dice sì anche se non capisci qual è la loro idea. A quest’ora, fosse dipeso da lui, Andrea non scriverebbe più, non perché lo avrebbe ucciso ma perché gli avrebbe spezzato le dita, cosi, tanto per ricordargli che se non ti comporti bene campi malamente, e non per una ragione di mafia. Per una ragione di mafia l’avrebbe ammazzato all’istante, dice uscendo con gli altri due soci dalla villa di compare Angelo, ma per una ragione di educazione. Quel cotraro è maleducato. “Se non sai vivere educato, e non sai come trattare le persone che contano, ti partono le dita, prima, poi una gamba e poi vediamo se l’educazione l’impari”.
“Il problema”, gli spiega il suo padrone prima di salutarlo, “è che questi giovani non si rendono conto dei guai che combinano. Sono cresciuti senza guide, per tanto tempo io, gli amici e persino i nostri nemici siamo stati in carcere per errori di valutazione, abbiamo sbagliato a farci la guerra tra noi e l’abbiamo pagata cara, cosi nei nostri paesi non abbiamo potuto seguire i giovani, quelli che stanno con noi e quelli che se anche non stanno con noi ci vivono accanto. Dobbiamo pazientare, Turi, capisci?” Ma Turi non risponde, abbassa lo sguardo perché altrimenti la rabbia gli esplode dagli occhi.
Fortuna che Andrea ha il santo che lo salva. E non è uno dei parenti australiani. Non è un santo della chiesa. Un cieco è, che per giunta soffre per una sciatica maledetta, e a cui nessuno riconosce una briciola di potere. E io il potere di salvargli la vita ce l’ho, perché sono un fratello di sangue di Angelo Pignataro e per questa volta, l’ultima, il pazzo se la caverà. Come può pensare lui di fermare la nostra storia? Compare Angelo smuove la terra con le sue gru, i suoi escavatori potenti, i suoi camion, ha le mani forti come due pale. I suoi mezzi vanni su e giù, lavorano per i privati e per le amministrazioni comunali, per lo Stato e per alcune grandi imprese, e fanno affari con i politici. Ha una cicatrice sulla guancia destra, il ricordo di uno che in carcere l’ha segnato per la vita, perché lui l’ha ammazzato e c’è un processo in corso, e se quell’omicidio gli è valso il rispetto dei suoi pari gli ha anche creato fastidi, avvocati e giudici scassapalle, testimoni da comprare o minacciare.
Ora sulla sua strada si mette di traverso Andrea, che scrive sul giornale dei suoi appalti e della sua vita di prima e di adesso, e lui pensa: può darsi che ce l’abbia con me per via di qualcuno che lo istiga, qualcuno che si annida nel Palazzo di Giustizia. Forse qualche mio nemico lo paga, come dice Turi, se cosi è quest’affronto si lava in un solo modo.
Cosi io, il cieco, sono andato a trovarlo e gli ho detto chi è Andrea, sangue mio, sangue suo. La forza del sangue, come si fa a uccidere il proprio sangue? E gli ho spiegato che l’unico torto che ha avuto sua madre è stato quello di mandarlo a studiare lontano e poi di farlo tornare. Qui Andrea s’è messo a fare il giornalista, ma si può senza nessuna cautela scrivere su un giornale di tutto? “Le leggi non servono a un emerito cazzo”, spiega Turi quando tratta l’argomento col suo padrone. Lui che di leggi violate se ne intende, “e oggi noi, che fatichiamo come lupi per tenere in piedi un’industria che dà lavoro e produce ricchezza per tanti e che se non ci fossimo noi qui molti morirebbero di fame, dobbiamo stare sotto schiaffo di chi? Di un cotraro che non ha neanche trent’anni e che della vita non sa niente”.
Come poteva pensare Andrea di fermare tutto questo? Lo vedo, come se l’avessi di fronte, rantola per il dolore, zoppicando verso casa, ha due fazzoletti zuppi di sangue nella mano, la vista appannata e da un orecchio non ci sente. Il padre era uno del giro di Pignataro, e un motivo l’avranno avuto per seppellirlo. La madre che l’ha tenuto all’oscuro, il cieco premuroso, Kant col suo cielo stellato che invece visto con gli occhi turgidi e il naso sanguinante è una schifezza, i suoi amici di Roma e i colleghi del giornale che aspettano per stasera un altro suo articolo su Pignataro. Andrea ora non sa più riconoscere i giusti e i mali.
Lo chiamano dal giornale, non hanno ricevuto nulla. “Ma no, su questa storia non c’è da aggiungere niente”. La ragazza dall’altra parte del telefono non insiste: “Non preoccuparti, vorrà dire che lo spazio riservato a te lo destiniamo a un articolo sul teatro dialettale”. Andrea s’è seduto, s’accorge di non avere chiuso il computer prima di uscire, dopo avere scritto il nome del padre su “Google”, non ha premuto “Invio”, istintivamente il polpastrello batte sul comando ma subito si rende conto del gesto e interrompe la ricerca premendo il tasto “canc”.
Fine della ricerca. Internet non può aggiungere altro. Non ha saputo dirgli ciò che un ex boscaiolo sa da sempre. Per anni ha lanciato il nome del padre nei grattacieli ricchi della rete, fra le città smisurate, scrigni di ogni ricchezza immaginabile del terzo millennio di cui è composta Internet, tra i miliardi di fili il cui inizio e la cui fine nessuno scienziato saprebbe misurare.
Io stasera, come sempre, dopo cena passeggio col mio amico di sempre. Dal mare si alza un venticello che smuove la foschia, è tardi e al mio amico chiedo l’ora, sento una stanchezza alle gambe che mi farà riposare, la giornata è stata lunga, molte cose sono successe e tra qualche giorno Andrea se ne tornerà a Roma e dopo a Sydney dai suoi parenti. Che ore sono? “Nuddura è!”, risponde l’amico. Nessuna ora è. Il tempo, dopo mezzanotte e dopo che accadono vicende che nessuno può più rimettere a posto, non conta più.
*Pubblicato su il Quotidiano della Calabria il 20 luglio 2008
1 commento:
un bel racconto..letto senza un attimo di pausa.
si poteva continuare...
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