26 settembre 2011

I fiori di Niko Citriniti

Niko Citriniti nel suo laboratorio 

L’appuntamento è davanti al Palazzetto dello sport al Corvo, quartiere popolare di Catanzaro. Ci rechiamo in uno dei suoi laboratori dove ha raccolto alcune sue opere. In macchina ha abbassato le spalliere posteriori perché ha recuperato un frigorifero degli anni ’70. “Sono stato fortunato – ci dice - L’ho trovato in una discarica qua vicino. Ancora non so cosa ci faccio, se una lampada o un mobiletto. Devo vedere cos’altro ho. Comunque dalla parte di sotto ci devo agganciare delle ruote giganti”. Mentre ce lo spiega il suo sguardo s’illumina. Per le amministrazioni pubbliche si tratta di rifiuti ingombranti, da smaltire separatamente dall’umido e dagli altri materiali. Per lui, invece, qualcosa di prezioso. Che può diventare un capolavoro. Da ammirare come un quadro sulla parete. “Noi siamo ciò che produciamo, anche i rifiuti”, commenta. Ci vengono in mente le parole di Fabrizio de Andrè: “Dal letame nascono i fiori”. Niko Citriniti, di anni 37, catanzarese doc, ha una passione: l’alterazione dei rifiuti. Ha uno scopo: la disconnessione dal sistema. E una debolezza: i manichini femminili. “Sono di una bellezza spettacolare”.

Com’è nata questa passione per i manichini femminili?
È una storia lunga. Da ragazzo accumulavo oggetti strani. I miei lo soffrivano fintanto mio padre, che lavoratore presso Telecom, non mi portò dei pezzi elettronici che non si trovavano in giro. Volevo studiare grafica, disegno. Per tanti motivi non l’ho fatto. Poi il neon anni ’70. E i manichini. Quelli femminili hanno qualcosa in più. Il corpo femminile è spettacolare. Ed è rappresentato in modo perfetto, anche diverso dalla realtà. Non esistono, per esempio, manichini con la cellulite. Mi affascinano. E qui si apre la mia fantasia.
Perché i neon?
Perché mi sono sempre piaciuti. La luce. E poi questi, a differenza di quelli di oggi,  erano concepiti per durare a lungo. Avevano delle forme particolari, uniche. Tutto il design di quegli anni.  Aveva chiaro l’obiettivo di personalizzare gli spazi. Oggi sembra tutto un copia incolla.
Cos’è un manichino?
È un concetto che a me piace lavorare. Trasformarlo per un utilizzo diverso.
Uno di suoi manichini più famosi è quello ricoperto di fumetti e con una lampada al posto della testa. Dove l’ha trovato?
In un cumulo di rifiuti. Nello stabile dell’ex Fiera dei due Mari, ora ridotto ad una vera discarica. Quando l’ho visto mi sono illuminato.
E i televisori degli anni ’70 trasformati in delle stupende lampade, cosa vogliono dire?
Il messaggio che vorrei trasmettere è spegnere la televisione e accendere il cervello.
Come mai?
Perché la tv sta diventando una forma di religione, un oppio che vuole controllare tutto, che vuole distorcere la realtà. È la celebrazione della manomissione della vita delle persone.
Come considera Saverio Rotundo, detto U’ Ciaciu?
Un maestro. La sua arte mi ha sempre appassionato, anche se facciamo cose diverse. Alla Notte piccante dello scorso anno mi portò dei pasticcini e mi suggerì di offrirli a quelli che venivano. Questo è un fatto che mi ha riempito di orgoglio, (però questa cosa non la scriva). Io non sono nessuno al suo confronto. E, soprattutto, mi consigliò di frequentare l’Accademia “perché altrimenti - mi disse - la gente non ti apprezza”.
Come mai non dà i nomi alle sue creazioni?
Perché secondo me non sono importanti. Io faccio una cosa. Ed è importante solo quello che riesco a trasmettere. I nomi li danno coloro i quali hanno frequentato l’Accademia e sanno magari definirli meglio di me. Non oso nemmeno farmi chiamare artista. Sono gli altri che sono preposti a farlo, non certo io. A me interessa solo che riesca a suscitare delle emozioni. Qualcosa. Una specie di disconnessione dalla realtà. Mentre in me rimane sempre una sorta di affetto verso le cose che creo.
E le critiche come le giudica?
Sono sempre delle reazioni. Vuol dire quanto meno che sono riuscito a metterti in discussione.
Come nasce una sua opera?
Sono sempre stato un tipo curioso. Mi piace trasformare qualcosa che ha attirato la mia attenzione. Vado in giro per le discariche. Me la porto a casa e comincio ad assemblare. Nel mentre è possibile che mi venga in mente un’altra opera e lavoro su tutte e due, o anche su altre contemporaneamente. L’unico distinguo è dato dalla musica. Quando lavoro su una ascolto sempre la stessa musica che mi accompagna per tutto il percorso. Finché non mi accorgo che l’assemblaggio è perfetto, come per un puzzle. Da questo punto in poi non la ritocco più.
Ci racconti l’ “Outside art”.
Significa letteralmente “arte fuori”, “installazione a tempo determinato”. E l’ho sperimentata l’11 e il 18 settembre scorsi. La prima volta sulla spiaggia di Roccelletta e poi in pieno centro a Catanzaro.
Cosa ha fatto l’11?
Mi sono recato sulla spiaggia e ho piazzato una mia opera davanti agli ombrelloni.
Perché?
Per vedere quello che succedeva. La cosa simpatica è che la gente si è incuriosita parecchio. Si è domandata cosa ci facesse una cosa del genere e per quale motivo. Ricordo molto teneramente  una bambina che è rimasta a guardarlo per circa mezz’ora. I bambini sono i miei fan prediletti.
Per quanto tempo ha lasciato la sua creazione lì?
Per circa un’ora. La outside art è a tempo determinato…
E quella del 18 settembre com’è andata?
È stata un’ “outside art” itinerante, per così dire. Siamo partiti da via Milano di Catanzaro, dalla stazione delle Calabro lucane, fino a Corso Mazzini. Ho fatto sostare il manichino per un po’ sotto una pensilina dell’autobus. Poi  a Piazza Matteotti, sia sulle strisce che in mezzo alla piazza. E infine per il Corso.
Perché sulle strisce?
Non calcolo mai prima la modalità della rappresentazione, quando mi va di fare una cosa è perché il quel momento mi va di fare così. Perché mi venne in mente un video dei Beatles in cui loro cantavano su delle strisce.
Quale il motivo?
La disconnessione dalla realtà. Dal sistema. In quel momento.
E ci è riuscito?
Spero di sì. La gente si fermava curiosa. Anche in questo caso sono stati i bambini quelli più sensibili.
Poi sul Corso…
Sì. Fino a piazza della Libertà. Qui è stato bello perché c’erano due matrimoni e gli sposi si sono voluti fare la foto insieme al mio manichino.
Ne farà un’altra?
Sì. Ci sto lavorando.
Ce lo può anticipare?
Una specie di storia d’amore tra i due manichini, quello maschile e femminile. La devo ancora contestualizzare. Sono sempre dei personaggi futuristici, per così dire. Delle presenze che, comunque, non possono passare inosservate.
Se potesse trasformare qualcosa di Catanzaro cosa farebbe?
Metterei le opere del Ciaciu su Piazza Matteotti. Lo hanno fatto circa dieci anni fa solo per un mese. Non me lo posso dimenticare. Fu un’iniziativa fantastica. Saverio Rotundo lo merita.
E se potesse creare qualcosa di suo?
Farei un monumento al consumismo. Un sacco di cose assemblate in modo da durare nel tempo. Un assemblaggio unico di materiali per ricordarci quello che siamo. Io utilizzo rifiuti, ma i rifiuti, a pensarci bene, sono il nostro passaggio, il retaggio di quello che siamo. Produci, consumi e crepa, mi viene in mente la canzone dei CCCP. 


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2 commenti:

Cirano ha detto...

molto, molto interessante un modo nuovo di rileggere l'arte; molta attenzione al situazionismo in stile Debord!! COmplimenti per la notizia e per l'artista....

domenico ha detto...

qualsiasi oggetto quando prende forma diventa arte.
complimenti