Niko Citriniti nel suo laboratorio
L’appuntamento è davanti al
Palazzetto dello sport al Corvo, quartiere popolare di Catanzaro. Ci rechiamo
in uno dei suoi laboratori dove ha raccolto alcune sue opere. In macchina ha
abbassato le spalliere posteriori perché ha recuperato un frigorifero degli
anni ’70. “Sono stato fortunato – ci dice - L’ho trovato in una discarica qua
vicino. Ancora non so cosa ci faccio, se una lampada o un mobiletto. Devo
vedere cos’altro ho. Comunque dalla parte di sotto ci devo agganciare delle ruote
giganti”. Mentre ce lo spiega il suo sguardo s’illumina. Per le amministrazioni
pubbliche si tratta di rifiuti ingombranti, da smaltire separatamente
dall’umido e dagli altri materiali. Per lui, invece, qualcosa di prezioso. Che
può diventare un capolavoro. Da ammirare come un quadro sulla parete. “Noi
siamo ciò che produciamo, anche i rifiuti”, commenta. Ci vengono in mente le
parole di Fabrizio de Andrè: “Dal letame nascono i fiori”. Niko Citriniti, di anni
37, catanzarese doc, ha una passione: l’alterazione dei rifiuti. Ha uno scopo:
la disconnessione dal sistema. E una debolezza: i manichini femminili. “Sono di
una bellezza spettacolare”.
Com’è nata questa passione per i manichini femminili?
È una storia lunga. Da ragazzo accumulavo oggetti strani. I miei lo
soffrivano fintanto mio padre, che lavoratore presso Telecom, non mi portò dei
pezzi elettronici che non si trovavano in giro. Volevo studiare grafica,
disegno. Per tanti motivi non l’ho fatto. Poi il neon anni ’70. E i manichini. Quelli
femminili hanno qualcosa in più. Il corpo femminile è spettacolare. Ed è
rappresentato in modo perfetto, anche diverso dalla realtà. Non esistono, per
esempio, manichini con la cellulite. Mi affascinano. E qui si apre la mia
fantasia.
Perché i neon?
Perché mi sono sempre piaciuti. La luce. E poi questi, a differenza di
quelli di oggi, erano concepiti per
durare a lungo. Avevano delle forme particolari, uniche. Tutto il design di
quegli anni. Aveva chiaro l’obiettivo di
personalizzare gli spazi. Oggi sembra tutto un copia incolla.
Cos’è un manichino?
È un concetto che a me piace lavorare. Trasformarlo per un utilizzo
diverso.
Uno di suoi manichini più famosi è quello ricoperto di fumetti e con
una lampada al posto della testa. Dove l’ha trovato?
In un cumulo di rifiuti. Nello stabile dell’ex Fiera dei due Mari, ora
ridotto ad una vera discarica. Quando l’ho visto mi sono illuminato.
E i televisori degli anni ’70 trasformati in delle stupende lampade,
cosa vogliono dire?
Il messaggio che vorrei trasmettere è spegnere la televisione e accendere
il cervello.
Come mai?
Perché la tv sta diventando una forma di religione, un oppio che vuole
controllare tutto, che vuole distorcere la realtà. È la celebrazione della manomissione
della vita delle persone.
Come considera Saverio Rotundo, detto U’ Ciaciu?
Un maestro. La sua arte mi ha sempre appassionato, anche se facciamo
cose diverse. Alla Notte piccante dello scorso anno mi portò dei pasticcini e
mi suggerì di offrirli a quelli che venivano. Questo è un fatto che mi ha
riempito di orgoglio, (però questa cosa non la scriva). Io non sono nessuno al
suo confronto. E, soprattutto, mi consigliò di frequentare l’Accademia “perché altrimenti
- mi disse - la gente non ti apprezza”.
Come mai non dà i nomi alle sue creazioni?
Perché secondo me non sono importanti. Io faccio una cosa. Ed è
importante solo quello che riesco a trasmettere. I nomi li danno coloro i quali
hanno frequentato l’Accademia e sanno magari definirli meglio di me. Non oso
nemmeno farmi chiamare artista. Sono gli altri che sono preposti a farlo, non
certo io. A me interessa solo che riesca a suscitare delle emozioni. Qualcosa.
Una specie di disconnessione dalla realtà. Mentre in me rimane sempre una sorta
di affetto verso le cose che creo.
E le critiche come le giudica?
Sono sempre delle reazioni. Vuol dire quanto meno che sono riuscito a
metterti in discussione.
Come nasce una sua opera?
Sono sempre stato un tipo curioso. Mi piace trasformare qualcosa che ha
attirato la mia attenzione. Vado in giro per le discariche. Me la porto a casa
e comincio ad assemblare. Nel mentre è possibile che mi venga in mente un’altra
opera e lavoro su tutte e due, o anche su altre contemporaneamente. L’unico
distinguo è dato dalla musica. Quando lavoro su una ascolto sempre la stessa
musica che mi accompagna per tutto il percorso. Finché non mi accorgo che l’assemblaggio
è perfetto, come per un puzzle. Da questo punto in poi non la ritocco più.
Ci racconti l’ “Outside art”.
Significa letteralmente “arte fuori”, “installazione a tempo
determinato”. E l’ho sperimentata l’11 e il 18 settembre scorsi. La prima volta
sulla spiaggia di Roccelletta e poi in pieno centro a Catanzaro.
Cosa ha fatto l’11?
Mi sono recato sulla spiaggia e ho piazzato una mia opera davanti agli
ombrelloni.
Perché?
Per vedere quello che succedeva. La cosa simpatica è che la gente si è
incuriosita parecchio. Si è domandata cosa ci facesse una cosa del genere e per
quale motivo. Ricordo molto teneramente
una bambina che è rimasta a guardarlo per circa mezz’ora. I bambini sono
i miei fan prediletti.
Per quanto tempo ha lasciato la sua creazione lì?
Per circa un’ora. La outside art è a tempo determinato…
E quella del 18 settembre com’è andata?
È stata un’ “outside art” itinerante, per così dire. Siamo partiti da
via Milano di Catanzaro, dalla stazione delle Calabro lucane, fino a Corso
Mazzini. Ho fatto sostare il manichino per un po’ sotto una pensilina
dell’autobus. Poi a Piazza Matteotti,
sia sulle strisce che in mezzo alla piazza. E infine per il Corso.
Perché sulle strisce?
Non calcolo mai prima la modalità della rappresentazione, quando mi va
di fare una cosa è perché il quel momento mi va di fare così. Perché mi venne
in mente un video dei Beatles in cui loro cantavano su delle strisce.
Quale il motivo?
La disconnessione dalla realtà. Dal sistema. In quel momento.
E ci è riuscito?
Spero di sì. La gente si fermava curiosa. Anche in questo caso sono
stati i bambini quelli più sensibili.
Poi sul Corso…
Sì. Fino a piazza della Libertà. Qui è stato bello perché c’erano due
matrimoni e gli sposi si sono voluti fare la foto insieme al mio manichino.
Ne farà un’altra?
Sì. Ci sto lavorando.
Ce lo può anticipare?
Una specie di storia d’amore tra i due manichini, quello maschile e
femminile. La devo ancora contestualizzare. Sono sempre dei personaggi
futuristici, per così dire. Delle presenze che, comunque, non possono passare
inosservate.
Se potesse trasformare qualcosa di Catanzaro cosa farebbe?
Metterei le opere del Ciaciu su Piazza Matteotti. Lo hanno fatto circa
dieci anni fa solo per un mese. Non me lo posso dimenticare. Fu un’iniziativa fantastica.
Saverio Rotundo lo merita.
E se potesse creare qualcosa di suo?
Farei un monumento al
consumismo. Un sacco di cose assemblate in modo da durare nel tempo. Un
assemblaggio unico di materiali per ricordarci quello che siamo. Io utilizzo
rifiuti, ma i rifiuti, a pensarci bene, sono il nostro passaggio, il retaggio
di quello che siamo. Produci, consumi e crepa, mi viene in mente la canzone dei
CCCP.
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2 commenti:
molto, molto interessante un modo nuovo di rileggere l'arte; molta attenzione al situazionismo in stile Debord!! COmplimenti per la notizia e per l'artista....
qualsiasi oggetto quando prende forma diventa arte.
complimenti
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