2 dicembre 2009

La maieutica del cinema secondo Vittorio De Seta

Vittorio De Seta

“Pronto”. “Salve, sono un giornalista, parlo con il signor Vittorio De Seta?” “Sì”, mi risponde l’altra voce al telefono. “Vorrei chiederle la cortesia di concedermi un’intervista”. “Lei è calabrese? e precisamente di dove? E dove ha detto che scrive?” “Sa, per arrivare a casa mia deve, dopo il bivio, andare diritto fino ad un cancello blu, io abito proprio lì”. E’ iniziata così la nostra conoscenza di uno fra i più grandi cineasti italiani. Gentile. Curioso. Curioso di sapere il paese di provenienza, disponibile e soprattutto partecipe, fino all’empatia. Il regista di “Banditi a Orgosolo”, “Uomo a metà”, “Diario di un maestro”, solo per citarne alcuni, e ormai parte della cinematografia classica italiana, e ultimo, di “Lettere dal Sahara”, presentato come evento fuori concorso all’ultimo festival di Venezia, nonostante i suoi 83 anni suonati, mostra interesse per un’ennesima intervista! Lo stesso interesse che lo ha sempre accompagnato nella sua lunga carriera dietro la macchina da presa. La stessa curiosità che lo ha portato a rielaborare la sua sceneggiatura di continuo. A non imporre mai “il suo punto di vista”. Anzi, a invogliare gli altri ad esprimere il loro. Come è successo in tanti suoi film quando pastori, contadini e studenti hanno interpretato semplicemente loro stessi.

Partiamo dal suo ultimo lavoro: “Lettere dal Sahara”. Il protagonista, Assane, dopo aver vissuto e lavorato in Italia, subendo umiliazioni e soprusi, ritorna nel suo paese d’origine, il Senegal. Cosa significa che l’Italia è troppo “sazia” di profitto e di consumismo per mostrarsi sensibile e accogliente verso quelli che vivono in condizioni peggiori?
Il film descrive l’esperienza di un immigrato che vuole integrarsi. Si mette a lavorare e in cambio riceve sofferenze e umiliazioni. Chiaramente il film non generalizza su tutti gli italiani, ma rappresenta un’esperienza tipo. Il protagonista è lui. Non l’Italia. Lui con la sua cultura, le sue tradizioni. Dal suo essere, dalla sua identità viene fuori ciò che lo spettatore dovrebbe recepire per venire incontro all’altro.

Una recensione divide il film in due parti. La prima, attiva e poetica, che rappresenta l’arrivo in Italia di Assane e la sua vita nel nostro paese. La seconda, troppo didascalica e retorica, del suo ritorno in Senegal…
Non mi fido di quello che dicono i critici. Il film non si può separare. Se mai, le parti, allora, sono tre, mancherebbe la terza, quella della sua vita in Senegal, dopo avervi fatto ritorno. E quindi, la sua vera vita, i suoi dialoghi con il suo maestro… No. Il film è uno. Ogni tentativo critico di smembrarlo è un azzardo che gli fa perdere l’identità che si sforza di rappresentare. L’identità di un immigrato in un paese occidentale come l’Italia che ha poca memoria, non ricordando che molti italiani hanno fatto la stessa cosa nei decenni passati.

Gli immigrati possono essere considerati come i “nuovi oppressi” della società di oggi, con l’Occidente, da una parte, che detiene il potere e quelli che vivono nei paesi poveri che sono costretti a subire le scelte economiche e “globalizzate” dei paesi occidentali?
Senz’altro. Rappresentano la nuova schiavitù. Sono mal pagati, lavorano in condizioni penose. E poi ci sono le ragazze dell’Est costrette a prostituirsi. Da una parte, gli immigrati sono ritenuti necessari al tipo di economia vigente che abbisogna di mano d’opera a basso costo. Dall’altra c’è l’aspetto morale ed etico della dimenticanza, come nel caso dell’Italia. Che anche noi siamo stati un popolo di emigranti. Ma non sono loro i soli oppressi. Anche in Italia ci sono fasce intere, ridotte alla subalternità che non riescono a seguire il processo di uno sviluppo sempre più accelerato. Come quello delle nuove tecnologie, che è diventato così incalzante di cui non tutti riescono a tenere il passo, creando un forte confusione. Anche fra giovani e anziani si è prodotto un divario che la società non aiuta a colmare.

Il “cinema è un atleta”, questa frase è di Mayakovshij e lei l’ha fatta sua riflettendo sulle enormi potenzialità che ha il cinema. E’ successo, per esempio, con il suo “Banditi a Orgosolo”, in cui ha descritto i pastori di Orgosolo con una tale forza di immagini, e di suoni, da dare il via ad un processo culturale che ha permesso ai suoi cittadini di entrare nella modernità mantenendo la loro identità. Oppure con un altro film, come “Diario di un maestro”, in cui lei ha messo il dito nella piaga della scuola italiana ancorata a dei principi di insegnamento poco inclini all’autocritica nella formazione degli allievi. Quando gli addetti ai lavori pensavano che questo film fosse stato un flop fece il boom di ascolti, e tanto si discusse sul perché del suo successo. In Calabria, che tipo di linguaggio deve avere il cinema o la cultura per produrre tali risultati?
Nella società la funzione pedagogica spetta, principalmente, alla famiglia, alla scuola e al cinema. Sono essi a consegnare gli strumenti agli individui per affrontare la realtà. Non nozioni ma veri strumenti operativi. Per esempio, quando fu mandato in onda “Diario di un maestro”(che racconta la storia di un maestro che utilizza metodi didattici non tradizionali per conquistare una classe di alunni difficili e viene per questo osteggiato dalle autorità) nessuno scommise sul suo successo perché si partiva dal presupposto che alla gente non piacciono le cose serie. No, le persone sono interessate. Certo, il loro interesse dipende da come gliele fai vedere, da come gli mostri il problema. Dipende dalla verità del prodotto che offri e dalla curiosità che riesci a suscitare. E se è autentico la gente ti viene dietro perché ha un cuore, basta solo riscaldarlo adeguatamente. Il cinema ha questa funzione culturale precisa. Altrimenti che funzione dovrebbe avere? Mi dice che funzione hanno questi reality che non ti lasciano niente dentro. Dopo averli visti si rimane tali e quali a prima. L’arte è dinamismo. E così anche la scuola. Se la scuola si ferma a parlare solo di Dante e Petrarca, come se loro fossero la verità, che attivismo possono suscitare? La scuola di oggi è ancora ferma al nozionismo, mentre questi ragazzi, una volta fuori, devono rifarsi da soli. E, mi pare, che le Istituzioni, non stiano facendo granché per fare dei cittadini degli esseri pensanti. L’unico antidoto per la rinascita dell’uomo di oggi è la cultura, non ce n’è un altro. E questo vale anche per la Calabria. Ma nella punta dello Stivale c’è un altro dato che non aiuta il rinnovamento. E’ quello della fuga dei cervelli. I nostri ragazzi, quando si rendono conto di come vanno le cose nella loro terra, emigrano e si affermano fuori. Quindi, se fuori si affermano vuol dire che è il tessuto sociale a non funzionare, a non aiutarli.

Nel libro che hanno scritto Goffredo Fofi e Gianno Volpi: “Vittorio De Seta: il mondo perduto” appare chiaro che il mondo perduto che lei ha rappresentato è quello dei contadini del meridione d’Italia, in particolare della Sicilia, della Sardegna e della Calabria, una realtà di forti tradizioni culturali spazzata via in poco tempo dalla trionfante civiltà industriale. I soggetti a lei più cari, quindi, sono in conflitto con il nuovo sistema sociale. In altri, invece, come “Un uomo a metà” e “L’invitata”, pare che questi soggetti siano in conflitto con loro stessi. E pienamente integrati con la “nuova” società. Come mai questo cambiamento?
Devo ammettere che ho anticipato i tempi. Mentre in letteratura, i vari Berto e Svevo avevano già descritto il malessere della nevrosi suscitando una certa approvazione. Nel cinema, invece, il disagio dell’inconscio non era stato ancora toccato, e così, quando presentai “Un uomo a metà” (che parla di un giornalista incapace di amare e di avere una vita appagante) mi sono piovute addosso delle critiche feroci. Non solo per la novità assoluta nel campo cinematografico di questa tematica ma anche per i soggetti che avevo rappresentato fino ad allora. “Come, prima parli di impegno sociale e adesso di intimismi jungiani, non sei credibile” mi dicevano. E invece i malesseri interiori di questa società derivano dallo stesso progresso che strappa il vissuto delle persone a favore di una oggettività di ideali e comportamenti spesso impersonale. Da qui, il disagio delle persone che non si lasciano facilmente abbindolare. Jung diceva che è proprio il nevrotico a dare segni di vitalità. E quindi è proprio lui ad essere sano, mentre malati sono gli altri che subiscono passivamente ciò che gli viene sciorinato. Le rivoluzioni giovanili del ’68, in quest’ottica, sono la manifestazione più vistosa di questo malessere contro il materialismo, la tradizione, che i loro padri hanno forzatamente voluto imporre ai loro figli. Come vede c’è una continuità tra i contadini e il giornalista de “Un uomo a metà”. Lo ha visto il film sul giornalista?

No, non ho mai avuto la possibilità di vederlo.
Allora gliene do una copia.

Ndb: Intervista realizzata qualche anno fa. E solo scelte redazionali non ne permisero la diffusione. Spero di fare un piacere ai lettori dell'Url-blog pubblicandola oggi. Esattamente dopo 3 anni, la sera del 3 dicembre 2006.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

belle domande e belle risposte...
Mio caro emilio, possiedi questa intervista e la tiri fuori dopo 3 anni??
questa intervista mette in luce alcuni aspetti di vita che avevo considerato superficialmente in passato e che attualmente concordo in pieno con il signor De seta.

daniele

domenico ha detto...

Non sbaglio quando continuo a dire e ridire che
potresti scrivere su qualsiasi giornale.
Bravo Emilio e complimenti .

nadia carminati-segrate ha detto...

Emilio quando scrivi,scrivi col cuore a noi lettori del tuo blog ci piace leggere i tuoi articoli , poi vai da un argomento impegnativo a quello ridicolo,non pensavo che a zagarise ci fosse un Sindaco così.
grazie ancora per i tuoi articoli.

rosalba ha detto...

...Un uomo a meta' o una donna a metà, beh,fa lo stesso
...è vero "i malesseri di questa società derivano da quel progresso che prende il vissuto delle persone per un'oggettività di ideali e comportamenti spesso impersonali...Da qui il disagio"...Santo cielo queste parole mi hanno colpito l'animo, per la loro veridicità e per come sono applicabili su ognuno di noi, definibili nevrotici, quindi vitali! Grazie Emilio per la conoscenza di questo personaggio illustre, che hai esteso a tutti noi! Rosalba

Giulia ha detto...

Complimenti, è un'intervista straordinaria. Due gran belle intelligenze a confronto.