In uno dei suoi tanti interventi ha sostenuto che la società di oggi è in crisi. Una società liquida dove tutto passa, e il diverso non viene valorizzato, ma allontanato. Perché?
Oggi viviamo una fase post-moderna dove le trasformazioni sono rapidissime e non consentono di acquisire l’esperienza dei momenti appena vissuti. Questo porta alla percezione della mancanza di sicurezza e poi all’ansia. Il primo a pagare le conseguenze di questo scenario è il bambino, rubato alla sua umanità. Perché ogni bambino rappresenta l’umanità. Gli adulti sono disorientati e non sanno più come educare. Oggi ci sono più adulti, cioè più educatori, e meno bambini rispetto al passato. Eppure non reggono il confronto. Usano le loro categorie per trasmettere i messaggi, mentre il minore vive secondo una concezione del tempo più amplificata. Le immagini hanno preso il sopravvento sulla storia. Oggi pochi sanno raccontare una storia, si parla solo per flash. Il linguaggio è diventato virtuale. Uno scenario dove il locale e il globale si mescolano e si confondono con una grossa esigenza di specificità locale, accanto a una politica sviluppata su una, ormai imprescindibile, estensione mondiale. E nel momento in cui il diverso impone una rivisitazione delle categorie usate, una riflessione critica, ecco che viene scartato.
Perché? Il bambino come considera il tempo?
Il tempo astronomico non coincide con quello reale nel bambino. Perché vive molto più intensamente rispetto all’adulto. Oggi, per esempio, è inconcepibile che il minore, che si è macchiato di un reato, venga seguito per un processo di recupero dopo un anno. Quello dopo un anno si è già scordato e si chiede: che vogliono da me gli adulti? Bisogna intervenire subito con messaggi che lo rendano immediatamente consapevole di quello che è successo. Una volta, quando ero direttrice di un istituto, alcuni ragazzi mi misero a soqquadro la mia stanza. Io gliela feci ripulire subito con tanto di tinteggiatura nuova. La tempistica è fondamentale quando ci si rapporta con i bambini.
Analizzando la violenza di gruppo, molto più comune adesso rispetto al passato, lei dice che oggi i ragazzi non lo fanno per una “eventuale sessualità disturbata ma perché vogliono riprendersi con il telefonino”. Ci spieghi meglio questo passaggio.
Io lo chiamo bullismo cibernetico. Le violenze servono ai ragazzi per fare vedere le immagini ai compagni. Per avere un popolo virtuale. Per trasmettere la propria impresa. In altre parole, per diventare un personaggio. Cattivo, ma famoso! Una dimostrazione di amplificazione del proprio ego che confonde il reale con il virtuale. Un modo comunque di manifestare la propria esistenza che poggia su categorie che è la stessa società che trasmette loro. Una volta c’erano le crisi esistenziali dei ragazzi oggi invece sentono l’esigenza di essere sempre all’altezza della situazione senza sapere distinguere i valori che prima le tradizionali agenzie educative si sforzavano di rilasciare.
Quali sono le quattro “A” da dare ai giovani?
Sono amore, ascolto, accoglienza e accompagnamento. Ne hanno bisogno tutti, ma specialmente i minori autori di reato. L’intento è quello di restituire loro, attraverso queste categorie pedagogiche, l’umanità che hanno perso con il loro gesto. E lo si fa dando loro il “senso” delle cose. Aiutandoli ad apprendere. La capacità di intendere e di volere deve essere loro educata, però, non interrompendo il percorso di crescita. Ascoltandoli, accogliendoli, amandoli e accompagnandoli in una relazione che da soddisfazione alla reale volontà dello Stato di “recuperare” il ragazzo.
Ci racconti un episodio, dove il “recupero” del ragazzo è stato, per così dire, esemplare.
Con piacere. È successo in Calabria. Al ministero stavamo portando avanti un progetto: “La messa alla prova”, al termine del quale, se l’esito fosse stato positivo, sarebbe stato derubricato anche il reato, cioè cancellato come se non l’avesse mai fatto. Un ragazzo di 16 anni intorno al 1996 uccise lo zio. Si trattò di un efferato fatto di sangue. Ma è doveroso ricordare l‘ambiente dove si è consumato. L’adolescente viveva da solo con questo parente. E aveva solo lui come riferimento educativo. Mura domestiche che hanno conosciuto solo violenza, costantemente subita dal bambino. Quindi, il delitto, a parte il discorso delle attenuanti, va letto come un fatto che è consequenziale a ciò che ha potuto apprendere nell’arco della sua vita. Decidemmo che vi erano i presupposti per farlo partecipare al progetto. Lo abbiamo seguito fino a che non ha acquisito una sua identità e una sua personalità scevra dalle bruttezze che ha dovuto subire. Lo abbiamo aiutato a ristabilirsi come uomo. Si è anche diplomato, ed oggi è felicemente sposato. Di casi del genere ce ne sono stati tanti, ma questo certamente è quello che mi è rimasto più impresso.
Si è mai saputo che è stato proprio il nipote ad uccidere lo zio?
Mai. Ed è stato meglio così. Perché non ha dovuto affrontare il pregiudizio della gente nei confronti dei detenuti. Oggi la questione più delicata verso chi esce dal carcere è proprio l’indice puntato della società. Ad essa fa comodo avere le celle dove mettere il “Caino” della situazione perché così la nostra coscienza è a posto. Non credo che la società debba entrare dentro, ma che debba, invece, abbattere intellettualmente i muri delle carceri.
Si riferisce al discorso della reinclusione nella società dei detenuti?
Certamente. Si parla molto di prevenzione. Ma dovremmo valutare più attentamente la prevenzione secondaria e terziaria. Che è quella che si rivolge a chi è stato escluso e deve essere reincluso. Oggi l’Europa sta dicendo che forse manca la cultura di politiche della reinclusione. La mia esperienza di direttore d’istituto mi ha consentito di dare concretezza ai principi, di confrontarmi con la realtà dei minori detenuti i cui bisogni primari sono quelli di confrontarsi, di essere ascoltati, di essere accolti per poter costruire un’identità diversa.
Ndb: Già pubblicata sul numero di agosto 2008 de l'Opinione.
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