Un frame de La penna di Bruzio
Roma, via Tiburtina. Libreria Feltrinelli. Fine 2013. La sala
è stracolma di gente. Non c’eravamo solo noi, Mattia e io. Tanti altri volevano
incontrare il maestro. Claudicante, con la faccia rugosa ma ferma sul tempo di
due secoli, Andrea Camilleri, si
avvicina ad un tavolo predisposto per lui. Parla del suo libro. Delle sue
memorie siciliane speculari di una cultura millenaria e crocevia tra Occidente e
Oriente.
Ci chiamerà? Ci farà chiamare? A noi? A noi chi? Vecchie signore truccate e vestite a festa ci inghiottano senza riserve. Si fiondano verso quell’ombra ballante che si allontana alla fine della presentazione. Uomini guarniti di smartphone alla ricerca del selfie perfetto con il vero Montalbano sgomitano senza girarsi. Ci vuole un separé. E una voce stridula ma decisa informa che il maestro non ce la fa a firmare mille autografi. Ma che se gli viene spedito il libro a casa poi lo farà con calma avendo la briga di rispedire il volume al mittente. La delusione colpisce la sala che vorrebbe toccare quel corpo che ha appena raccontato da testimone quando un certo Luigi Pirandello citofonò a casa sua per salutare la nonna. E lui, bambino, che sale le scale come un topolino inseguito da un gatto per informare i suoi che c’è qualcuno di sotto. Aveva appena ricevuto il Nobel per la letteratura. Siamo nel 1934, o giù di lì. Subissati da un pubblico sensibile allo spirito ma senza scrupoli nel corpo, ci guardiamo in faccia. Che facciamo? Abbiamo appena fatto 600 chilometri per parlare con il maestro di un altro maestro vissuto mezzo secolo prima di lui, Vincenzo Padula, di cui sappiamo il siciliano essere un grande estimatore. Come nei colpi di scena dei film, quando si invertono i protagonisti. La vittima diventa carnefice e il carnefice vittima, così noi. Estraggo il Bruzio, un volume A3 piuttosto robusto, faccio fatica a farmi spazio per sollevarlo e indicarlo alla voce stridula ma decisa.
Ci chiamerà? Ci farà chiamare? A noi? A noi chi? Vecchie signore truccate e vestite a festa ci inghiottano senza riserve. Si fiondano verso quell’ombra ballante che si allontana alla fine della presentazione. Uomini guarniti di smartphone alla ricerca del selfie perfetto con il vero Montalbano sgomitano senza girarsi. Ci vuole un separé. E una voce stridula ma decisa informa che il maestro non ce la fa a firmare mille autografi. Ma che se gli viene spedito il libro a casa poi lo farà con calma avendo la briga di rispedire il volume al mittente. La delusione colpisce la sala che vorrebbe toccare quel corpo che ha appena raccontato da testimone quando un certo Luigi Pirandello citofonò a casa sua per salutare la nonna. E lui, bambino, che sale le scale come un topolino inseguito da un gatto per informare i suoi che c’è qualcuno di sotto. Aveva appena ricevuto il Nobel per la letteratura. Siamo nel 1934, o giù di lì. Subissati da un pubblico sensibile allo spirito ma senza scrupoli nel corpo, ci guardiamo in faccia. Che facciamo? Abbiamo appena fatto 600 chilometri per parlare con il maestro di un altro maestro vissuto mezzo secolo prima di lui, Vincenzo Padula, di cui sappiamo il siciliano essere un grande estimatore. Come nei colpi di scena dei film, quando si invertono i protagonisti. La vittima diventa carnefice e il carnefice vittima, così noi. Estraggo il Bruzio, un volume A3 piuttosto robusto, faccio fatica a farmi spazio per sollevarlo e indicarlo alla voce stridula ma decisa.
“Noi non siamo venuti per avere un libro dal maestro, ma per
consegnare un libro a lui!”
“E che cos’è?”
“Il Bruzio.”
“Brutto?”
“No, Bruzio”.
“Va bene.”
“Ecco, glielo dia!”
Si allontana trascinando il librone dietro la porta della letteratura.
E noi in trepida attesa in mezzo a uomini e donne imbellettati e armati fino ai
denti delle opere di Camilleri che ci guardano curiosi. Rifletto sui maestri che
non si sa per quale profonda ragione tra di loro si riconoscono. Che c’è
qualcosa che li unisce sull’altare della verità, dell’esistenza e dell’essere. Che
va al di là del tempo e dello spazio. Fisso i miei occhi sull’angolo della
chiusura della porta alla ricerca di una fessura con il mondo circostante. E mi
accorgo di un difetto. Non era perfettamente in asse. Poi, l’avviso: il
richiamo, la comunicazione con qualcuno della sala. Non con tutti. “Chi sono i
calabresi che si sono fatti 600 chilometri per incontrare il maestro?”
“Noi!”
Ci facciamo spazio tra facce frustrate e contrite. Varchiamo
la soglia e lo ritroviamo fiondato su una poltrona con il Bruzio aperto sulle
gambe intento a leggere qualcosa. Ecco perché si riconoscono. Perché i maestri
usano le stesse parole. Usano lo stesso inchiostro, grondante sangue vivo e
nobiltà d'animo.
In quel preciso momento ho capito una cosa. Che lo spirito
di Padula ci avrebbe aiutato a compiere l’impresa. Raccontare la sua vita. Il suo
esilio. Le sue mille sfaccettature letterarie. Politiche. Antropologiche. Storiche.
Poetiche. Religiose. Umane. La sua morte. La sua memoria. Che l’idea di Mattia Scaramuzzo non era così campata
in aria. Che se ha pensato di contattare Giulia
Zanfino per fare un documentario su Vincenzo Padula un motivo c’era. Che se
ero stato messo in mezzo avevo anch’io le mie responsabilità. E che se la Fondazione Padula ci guardava con
curiosità aveva le sue ragioni. Tanto che poi ci ha sostenuto con convinzione.
Bastava solo toccare quello spirito. E farsi guidare. Quando
le cose si fanno con amore le stesse cose si fanno vive, rispondono e ti
vengono incontro.
Così è stato anche per noi.
Confezioniamo l’intervista ad Andrea Camilleri, all’artista Silvio Vigliaturo che ha avuto la
fortuna di vivere la fanciullezza esattamente a due passi sia da dove è vissuto
Vincenzo Padula che il Beato Angelo
di Acri. L’intervista al nostro consulente più preparato, il professor Giuseppe Abruzzo. Allo storico della
letteratura Giulio Ferroni.
Ci prepariamo ad intervistare Carlo Verdone che per primo ebbe l’utopia di dire a Mattia che
qualcosa andava fatta. Ma come? Con quale fotografia? Era necessaria una
fotografia all’altezza. Della sua altezza. E non era facile. Della sua stessa
sensibilità, ed era improponibile una richiesta del genere senza pecunia. Solo lo
spirito ci avrebbe salvati. Quello spirito che merita considerazione e
rispetto. E soprattutto non si può barattare. Lo merita. E ci imbattiamo in Andrea e Matteo Aragona. Dei vibo-aragonesi
in fondo molto paduliani. Padula sa farsi amare da tutti. È simpatico. Sprigiona
empatia da tutti pori e le pagine. Accettano. E vai!
Il dilemma. Il grande
dilemma è cucire. Avevamo confezionato una tappezzeria. Cucire, allora, diventa
la parola d’ordine. Giulia aveva sempre il cruccio di raccontare la poliedricità
di Padula con una specie di carteggio tra un uomo di lettere contemporaneo che
si avvicina alle sue opere. Ecco, già Benedetto
Croce ci provò. Ecco, è fatta. Geniale. Un carteggio tra un uomo del suo
tempo che vive anche dopo di lui. Fino a noi. Un uomo senza tempo, come la
memoria dei maestri deve essere. Perché Padula non è mai morto. È più vivo che
mai.
Le voci. Quali voci
dare al film? È sempre lo spirito paduliano ad aiutarci. Prima Gino Manfredi che legge i testi di
Padula. E poi l’amante di lettere Fabio
Curto che gli risponde. Due voci diverse che parlano. Che parlano con e di Padula.
Due orecchi maestrali della Magna Graecia.
Gli attori. Lo stesso
Mattia Scaramuzzo che interpreta Padula da giovane. Giusto d’Auria da adulto e Giovanni
Turco da anziano. Forse troppi. Sì, decisamente. Ogni ricerca del bello conserva
dei difetti. E a questo credito non potevamo esimerci.
Il brigante. Era necessario
uno che avesse la faccia da brigante. Ci serviva uno che interpretasse Jaccapitta. Chi meglio di lui potrebbe veramente
somigliargli, secondo l’immaginario collettivo, nonostante gli occhi dolci? E Santo Bifano accetta con onore. I briganti
non erano certo malvagi per indole. Ma per altro. Ben altro. E lo sappiamo.
E poi quasi tutta la
comunità di Acri. La loro partecipazione alle scene è prodiga di spensieratezza
e poesia. Ecco perché Acri non è caduta nel baratro della subcultura. Perché il
seme di Padula non lo ha permesso.
In questo viaggio ci siamo scontrati anche con chi con diplomazia
e violenza, camuffate dal silenzio, ci ha sbattuto la porta in faccia. Monsignori
neri e tirati da colletti bianchi sudaticci e altri con il collo sollevato da cravatte
sgualcite hanno provato in tutti i modi a castrare il progetto e a fermarci. Questi personaggi
ci hanno fatto capire una cosa. Nessuno si può permettere il lusso di
accostarsi ad un grande uomo senza condividere un poco del suo vissuto.
Ecco a voi: La Penna di Bruzio. In onda il
prossimo 17 maggio 2016 alle ore 21 e 30 su Rai Storia.
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