Nella specie gli ermellini evidenziano che “essendo Genchi abilitato a consultare i dati presenti nel sistema informatico dell'agenzia delle entrate, non è ipotizzabile una volontà contraria del titolare dello “ius excludendi””. Questo scrivono quelli del Palazzaccio di Roma, ma il pubblico ministero della Procura, sempre al di qua del Tevere, nel presentare ricorso aveva cercato in tutti i modi il pelo nell’archivio. Aveva ravvisato che “il giudice del Riesame, esorbitando dal compito demandatogli dal codice di rito, ha ritenuto di poter compiere un accertamento di merito e non di verifica della qualificazione giuridica data dal pm al fatto ipotizzato e si è arrogato il potere di escludere ogni responsabilità di Genchi, prima ed a prescindere da un’effettiva e compiuta analisi dei dati informatici sequestrati proprio al fine di verificare la fondatezza o meno dell’ipotesi accusatoria”. Sembra ostrogoto ma il seguito ci aiuta a capire meglio la bontà del ricorso della Procura di Roma contra Genchi. “Secondo l’indirizzo interpretativo richiamato dal ricorrente - continua la Cassazione ripercorrendo le fasi della quaestio – questo modo di procedere non si addice alla fase iniziale e fluida delle indagini, nella quale vengono attivati i mezzi di ricerca della prova e rischia di condurre a un circolo vizioso, in forza del quale la fisiologica incompletezza iniziale delle indagini si traduce in ostacolo all’acquisizione di atti, documenti o altri elementi di prova e tale ostacolo a sua volta perpetua l’incompletezza delle indagini”. In altre parole la Procura non mette in dubbio il fatto che Genchi avesse l’autorizzazione ad accedere nel sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate, cosa pacifica oltre che procedimento iniziale dell’attività del consulente, ma guarda con sospetto a quell’ “ostacolo” che andava “rimosso” per andare a fondo nelle indagini. È questo il luogo e il momento in cui il consulente avrebbe, secondo la Procura, agito “abusivamente”, violando il domicilio informatico. Di cui il Riesame avrebbe negato “la sussistenza del fumus commissi delicti in prdine al reato”. A conferma di ciò la Procura capitolina avanza anche un altro fine. Quello del profitto. E cioè “il maggiore compenso conseguente all’acquisizione e al trattamento dei dati che non dovrebbero essere acquisiti e analizzati”.
La V sezione scioglie così, come neve al sole, il busillis proposto dal pm: “La qualificazione di abusività va intesa in senso oggettivo, con riferimento al momento di accesso e alle modalità utilizzate dall’autore per neutralizzare e superare le misure di sicurezza, apprezzate dal titolare dello ius excludendi, al fine di impedire eccessi indiscriminati”. L’asserzione della Procura secondo la quale Genchi “abusivamente si introduce” diventa per la Cassazione “ambigua e foriera di pericolose dilatazioni della fattispecie penale, se non intesa in senso restrittivo di “accesso non autorizzato”. Genchi – Procura di Roma: 2 a 0.
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