17 febbraio 2009
Verità, Giustizia e Stato. Il sogno di Gioacchino Genchi
Il tempo passa. Scorre. Inesorabile. Ma certe volte sembra avere nostalgia di se stesso.
È il caso di alcuni tormentoni giudiziari calabresi. Come le inchieste avocate a Luigi De Magistris, poi trasferito. Stessa sorte al procuratore che ha indagato sulle sue accuse, Luigi Apicella. Un tormentone che non si ferma. Che si ripete. Senza fare storia. Senza il là decisivo della storia. In una battaglia verso la salvaguardia della democrazia che sta facendo cadere uno a uno tutti i suoi paladini. Come dei birilli. Ma ci sono parole, dichiarazioni che sono lì. Che ne fanno già parte, come testimoni inascoltati delle note dello stesso pentagramma. Che aiutano a capire il perché.
È il caso di un’intervista al consulente del pm napoletano, Gioacchino Genchi, che mi ha rilasciato nel mese di dicembre 2007, all’indomani della rimozione dell’incarico. In tempi non sospetti, come si dice, rispetto agli ultimi sviluppi. Che ripropongo integralmente.
Il mascalzone in balia dello Stato
Dalle stragi del ’92, dove persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, passando per Scopelliti fino a De Magistris. Gioacchino Genchi ricostruisce un percorso, il suo, che è parallelo a quello di uno Stato che vuole essere presente per contrastare l’illegalità, evidenziando limiti e pregi di un rapporto fra politica e magistratura che si sta facendo sempre più sottile.Dopo gli eccidi del ’92 in Sicilia “si sono alzati degli steccati separando quelli che stanno da una parte e quelli che stanno dall’altra”, dice. “In Calabria, invece, ancora non ci sono, oppure non li ho visti”, ammonisce. E anticipa a “L’opinione” alcuni appunti (che sta raccogliendo in un libro) sull’uccisione del giudice Scopelliti, di cui Falcone “è stato preveggente”, ricorda. Si sbarazza delle calunnie, infine, di cui è vittima anche da organi istituzionali, così: “è solo per aver prestato il mio servizio a un magistrato giovane e onesto, quale è appunto Luigi De Magistris”.
Quando le hanno revocato la consulenza “Why Not” ha scritto: “mi hanno revocato gli incarichi, ma non mi possono togliere la voglia di sorridere”. Quanto è importante l’ironia nella sua vita?
La mia capacità di sorridere per quanto era successo equivaleva, ed equivale, alla capacità che altri avrebbero dovuto avere per piangere. Ritengo dei fatti veramente inauditi quelli che sono accaduti negli ultimi mesi a Catanzaro. Ne ho parlato con un giornalista straniero, che segue da anni vicende di mafia e nonostante tutto stentava a credermi. Se ci fossimo trovati in una partita di calcio, i fischietti dell’arbitro e dei guardalinee si sarebbero incantati. Nella vicenda di Catanzaro questo non è accaduto, solo perché l’arbitro ed il guardalinee si sono confusi con i falli dei vari giocatori. Le reazioni degli spettatori e della società civile, anche se definiti da taluno una “invasione di campo”, mi pare confermino che non mi sto sbagliando. La gente per bene non si lascia prendere in giro ed ha capito perfettamente quello che è successo a Catanzaro. Hanno messo il bavaglio ai giudici. Ai politici ed ai giornalisti democratici hanno chiesto di abbassare i toni. Ai comici ed ai satiri hanno cercato di zittirli con le querele. Hanno persino cercato di bloccare le fiction televisive, quando dovevano esaltare la dignità dello Stato e della Giustizia nella lotta alla mafia, dopo avere dato una falsa mitizzazione dei mafiosi. Che altro c’è da aspettarsi?
Partiamo da lontano, dalla sua infanzia. Quanto ha influito nel suo lavoro l’essere sempre a contatto con i libri nella libreria di suo padre?
Quando ho frequentato la prima elementare, già sapevo leggere e scrivere. Oggi è una cosa che capita spesso a molti bambini. Allora un po’ meno. I numeri erano la mia passione. Ricordo che mi piacevano più le sottrazioni che le addizioni. Non a caso, ancora oggi, difficilmente mi “addiziono” e molto spesso mi “sottraggo”. A parte l’ironia, io ho fatto pure l’asilo nella libreria di mio padre. In quella libreria, già in prima elementare mi sentivo all’università. Ho letto un’infinità di romanzi per bambini. Ancora oggi trovo ispirazioni in quelle prose. I “Viaggi di Gulliver”, ad esempio, come altre opere dello scrittore irlandese Jonathan Swift, hanno affinato la mia fantasia e la satira, in un misto di ironia tutta castelbuonese. I romanzi di Jules Verne, i primi gialli, hanno fatto il resto. Non avevo ancora compiuto 10 anni quando ho letto “Il Padrino”. Fu così che mandai in soffitta i racconti di Italo Calvino, per dedicarmi a letture più impegnative, con contenuti storici e politici. La storia della Sicilia e della mafia cominciarono ad essere le mie letture preferite. Nel 1975, la lettura de “Il Prefetto di ferro” di Arrigo Petacco e dei primi libri sulla storia della mafia, hanno sostanzialmente segnato le mie scelte professionali di molti anni dopo.
Mi parli della famosa “marcia a piedi” da Castelbuono a Cefalù con i suoi compagni delle scuole superiori.
Quella è stata una delle tante iniziative di protesta del movimento studentesco madonita di quel tempo. Forse la più clamorosa, anche per la diffusione mediatica che ha avuto. Ancora oggi viene ricordata come un momento di grande conquista civile dai miei coetanei e dagli anziani, che avevano la nostra età di adesso. All’epoca gli istituti scolastici superiori erano concentrati nei comuni più grandi delle province siciliane. Chi voleva proseguire gli studi, doveva servirsi degli autobus di linea o dei treni. Per questo, solo i figli delle famiglie benestanti potevano permettersi il costo degli abbonamenti mensili, che si sommavano agli oneri dei libri, necessari per frequentare le scuole superiori. La conseguenza pratica era che tanti giovani promettenti e volenterosi, di origini umili e contadine, non potevano consentirsi queste spese ed erano costretti, inesorabilmente, ad abbandonare gli studi.
E dopo che successe?
Dopo quella rocambolesca iniziativa della marcia a piedi a Cefalù, la Regione Siciliana varò una legge, che oggi garantisce a tutti gli studenti siciliani il pagamento dell’abbonamento mensile dei mezzi di trasporto, per frequentare qualunque scuola. Quella non fu che una delle tante iniziative di protesta civile di quegli anni. Altre battaglie furono fatte per la realizzazione degli istituti scolastici. All’epoca, quasi tutte le scuole erano ubicate in locali precari e presi in affitto, dagli immobiliaristi della zona. Gli Enti locali, per anni, avevano fatto finta di considerare la scuola come un optional della società. I problemi della scuola e degli studenti venivano affrontati con pressappochismo. L’unica attenzione dei politici era rivolta alla stipula dei contratti di locazione con i privati, rinnovati sempre a condizioni capestri per la pubblica amministrazione. I fondi dei bilanci degli Enti locali, praticamente, si trasferivano nei portafogli degli immobiliaristi, per i canoni degli affitti da capogiro. Nessuno pensava a costruire delle scuole, moderne e funzionali. Qualunque saggio amministratore, come un buon padre di famiglia, avrebbe pensato a stipulare un mutuo e, con non molto meno di quello che pagava per gli affitti, avrebbe costruito degli edifici scolastici nuovi e funzionali. Ebbene, con le occupazioni degli istituti e delle aule consiliari dei comuni, quando minacciammo che avremmo pure occupato il Duomo di Cefalù, si decisero a finanziare la costruzione delle nuove scuole, realizzate nelle aree frattanto espropriate. Dopo anni, quelle scuole sono state costruite ed oggi, con tanta commozione ed orgoglio, ci ritorno ogni anno, nella giornata del 23 di maggio, in occasione delle commemorazioni delle vittime della strage di Capaci del 1992, in cui furono trucidati (con l’esplosione di tutte e due le carreggiate di un’autostrada) il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti scorta. Fra quei poliziotti c’erano pure dei miei amici, fra cui Falcone, con cui avevo pure lavorato. Non riesco a descrivere la commozione che provo, ogni anno, nel parlare a quegli studenti, in quelle scuole. Fra loro ci sono anche i miei figli. Di molti altri ragazzi, solo dal rassomiglio dei volti, riesco a intuire il profilo delle loro madri e dei loro padri, che furono i miei compagni di scuola di quel tempo, in quelle battaglie civili e democratiche per il diritto allo studio e per una scuola migliore. Quelle scuole che per noi erano un sogno, oggi sono una realtà per i nostri figli. Questo rapporto con i giovani e con la scuola, a cui ho sempre tenuto, lo ritengo il momento più importante del mio essere poliziotto, cittadino e consulente dell'Autorità Giudiziaria. Forse qualcuno, ancora adesso, non lo ha ancora capito. Se si vuole migliorare e far crescere una società e se si vuole veramente debellare la mala pianta della cultura mafiosa, è proprio sui giovani e sulla scuola che bisogna puntare. Le leggi eccezzionali, il carcere duro per i mafiosi ed i corpi speciali di polizia, servono ben poco per combattere la mafia, quando questa si annida in una pseudo cultura, alla quale si ispirano ancora oggi molti giovani, specie in Calabria, per le deficienze ed i li miti di una sana cultura della legalità e del rispetto dello Stato. Ero e sono convinto che sotto il profilo della prevenzione criminale e mafiosa, ad esempio, un bravo insegnante elementare o di scuola media, come un professore di liceo, possano dare un contributo maggiore e più efficace nel contrasto alla cultura mafiosa, più di quanto non possano fare un maresciallo dei carabinieri o un commissario di pubblica sicurezza messi insieme. Non sono solo i mafiosi in quanto tali ad essere pericolosi per la società, ma è la cultura ed i messaggi subliminali che riescono a trasmettere ai giovani che, in prospettiva, rappresentano il pericolo maggiore.
Che cosa ha di speciale il suo paese, Castelbuono, che giudica così “civile e democratico”?
Mi riferisco alla storia di Castelbuono e delle Madonie. Nell’hinterland madonita, ed in paesi distanti pochi chilometri in linea d’aria da Castelbuono, hanno trovato i natali pericolosissimi boss mafiosi di “Cosa Nostra”. Dalle iniziative rocambolesche di Cesare Mori (il Prefetto di ferro) con l’assedio di Gangi, fino ai nostri giorni, la storia giudiziaria ce lo conferma. Autorevoli pentiti hanno definito le “Madonie” la Svizzera di “Cosa Nostra”. Alcuni dei capi mafia della Madonie, che partecipavano in modo autorevole alla “Commissione” di “Cosa Nostra”, con Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono stati condannati all’ergastolo, per la partecipazione alle stragi del 1992 e per tanti altri crimini. Orbene, nonostante le influenze del triangolo mafioso dei paesi vicini, Castelbuono ha rappresentato da sempre un’oasi di legalità.
Si spieghi meglio.
Intendo dire che Castelbuono ha sempre saputo mantenere intatta una cultura civile e democratica, unita ad un profondo senso dello Stato e rispetto delle istituzioni e delle sue leggi. Questi valori, che sono comuni nel modo di essere di ogni castelbuonese, hanno bloccato sul nascere qualunque possibile infiltrazione mafiosa, tanto nel mondo dell’imprenditoria, che della politica. In questo, mi sia consentito, credo che più di tutti abbiano inciso la formazione e la tradizione culturale dei castelbuonosi. Sono tantissimi, in tutto il mondo, gli studiosi e gli scienziati di Castelbuono, che si sono distinti ognuno nelle loro professioni. Dai ricercatori universitari ai giornalisti, dai medici agli scienziati e financo ai sacerdoti ed ai vescovi. Tutti i castelbuonesi nel mondo si sono fatti portatori della cultura della semplicità e del bene. Di una semplicità che non è ipocrisia, ma che è profondo rispetto del prossimo e che, nel rispetto del prossimo, è rispetto dello Stato e delle sue leggi. In questo senso ritengo il mio paese un esempio di civiltà e di democrazia, anche per la forte vocazione sociale che accompagna l’impegno lavorativo, i rapporti interpersonali ed il modo di essere di noi castelbuonesi.
Quanti Castelbuono ci sono in Sicilia?
Non è facile fare una statistica o ancora di più una “graduatoria”. Non vorrei, in questo, essere travisato. Quando parlo di Castelbuono sicuramente lo faccio con la nostalgia di chi vive nel ricordo del proprio paese e della propria infanzia. Lungi da me ogni velleità di campanilismo. Peraltro, vivo a Palermo, viaggio di continuo e riesco a raggiungere Castelbuono solo per poche ore, in pochi giorni dell’anno. Posso confermarle, però, che quella che è la cultura civile ed il senso dello Stato che colgo a Castelbuono, lo ritrovo oggi in molti altri comuni del circondario e della Sicilia. Anche in paesi che hanno avuto nel passato forti caratterizzazioni mafiose, da Corleone a Mistretta, da San Mauro Castelverde e Gangi. In questo, mi sia consentito, rivedo ancora una volta il contributo dei giovani e della cultura. Dai bravi maestri della scuola elementare fino ai professori delle medie e delle scuole superiori. In Sicilia, per mano della mafia, abbiamo pagato un contributo di sangue e di dolore che non ha eguali in nessuna parte del mondo. Una vera guerra, in cui oltre ai mafiosi sono stati trucidati magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, sacerdoti, uomini delle istituzioni e della politica, inermi cittadini e finanche degli innocenti bambini. Noi siciliani, però, abbiamo forse avuto la capacità di riconvertire questo contributo di sangue e di dolore, nella cultura del “bene” e della legalità. Dopo le stragi del 1992, grazie alla grande rivolta della società civile contro le “mafie”, sono stati alzati in Sicilia degli steccati, che hanno separato chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Quegli steccati hanno funzionato e funzionano ancora oggi in Sicilia, in particolare, nel mondo delle istituzioni e della magistratura. In Calabria, se mi consente, questi steccati io non lo ho visti e se ci sono, sono molto ben nascosti. In Calabria come in Sicilia ci sono tante, tantissime, persone per bene. Ci sono tanti, tantissimi, servitori dello Stato e Magistrati che fanno il loro dovere, con impegno e professionalità ed in condizioni di difficoltà che non hanno eguali in nessuna parte d’Italia. Nemmeno in Sicilia. Forse, però, il fatto di non avere visto morire dei propri colleghi fra i magistrati e gli investigatori, non ha dato ad una certa parte delle strutture giudiziarie calabresi quella tensione morale e quel senso della separatezza e dell’indipendenza dalla politica e dagli interesse di parte, che altri uffici giudiziari siciliani hanno saputo darsi e mantenere, dopo le stragi del ‘92.
Ma in Calabria è stato ucciso pure il giudice Antonino Scopelliti?
Si lo so, e mi sono occupato pure di recuperare le originali considerazioni che di quell’omicidio ha fatto nei suoi diari Giovanni Falcone. Anche in questo Falcone è stato preveggente. Quell’omicidio è stato per la Calabria quasi una meteora, come se non fosse avvenuto o come se Scopelliti non fosse un calabrese o, ancora peggio, come se non fosse un magistrato. Qualcuno ha pure considerato che solo per caso Scopelliti è stato ucciso in Calabria. Mi auguro che qualcuno non mi smentisca pure sull’omicidio o peggio sostenendo che Scopelliti è morto per un’intossicazione alimentare. Gli esiti giudiziari delle indagini su quell’omicidio non mi pare smentiscono l’ilarità delle mie considerazioni che, come dicevo, partono dal triste presagio di Giovanni Falcone. Forse molti giovani magistrati che lavorano in Calabria non hanno letto le carte di quel processo. Sto scrivendo su quell’omicidio e sulla vicenda umana dell’uccisione del giudice Antonino Scopelliti un approfondimento, che partirà proprio dalle annotazioni di Giovanni Falcone nei suoi diari, per arrivare ad oggi, nella considerazione di quello che è il ruolo della magistratura calabrese. Se qualcuno al Ministero della Giustizia o al Consiglio Superiore della Magistratura pensa che l’unico problema della magistratura calabrese sia il giudice Luigi de Magistris e allora forse il caso di riflettere seriamente su quelle che sono le reali volontà dello Stato di contrastare davvero l’illegalità e la mafia in Calabria. A proposito del giudice Scopelliti ricordo ancora le risultanze di un’indagine di qualche anno fa, originata proprio dagli scritti di Giovanni Falcone e dal monitoraggio delle sentenze di mafia della Cassazione, che Falcone aveva avviato quando occupava il posto di Direttore Generale degli Affari penali, al Ministero della Giustizia, prima che lo facessero saltare in aria a Capaci. In un’indagine su un magistrato, mi occupai dell’annullamento di un’ordinanza del Tribuanle del Riesame di Reggio Calabria, scritta in modo esemplare da un bravissimo giudice calabrese, Salvatore Boemi. Nei giorni immediatamente precedenti all’udienza della Cassazione che ha annullato quell’ordinanza (che riguardava proprio delle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione) ho rilevato una triangolazione di telefonate fra il fratello degli indagati (pure lui indagato) e le utenze dell’abitazione del Presidente e del Giudice estensore della motivazione della sentenza della Corte di Cassazione, che ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Presidente Boemi, disponendo l’immediata scarcerazioni degli indagati e compromettendo irreversibilmente il seguito di quel procedimento. Mi si potrà obiettare che delle telefonate fra buoni amici non significano nulla, nemmeno quando queste riguardano un Presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed un Giudice che è chiamato a redigere la motivazione del provvedimento di annullamento della misura cautelare, nei confronti di un indagato, fratello di quello che gli telefona e che è pure indagato in quel procedimento. Se nessuno si meraviglia di questo, non c’è nemmeno da meravigliarsi come mai, fino ad oggi, siano rimasti impuniti gli assassini del Giudice Antonino Scopelliti.
Da quando frequenta la Calabria quanti paesi come Castelbuono ha conosciuto?
Ho conosciuto in Calabria tanti pesi e tanti posti bellissimi. Anche molto più belli di Castelbuono. Boschi, spiagge, alture e paesaggi stupendi. Mi rammarico di avere visitato quei posti solo per ricostruire delle dinamiche omicidiarie e delle cruenti stragi. Non sono ancora riuscito ad organizzare una vacanza in Calabria, né un tour turistico, che non segua gli itinerari dei killer ed i luoghi degli agguati di mafia, consumate a colpi di Bazooka e di Kalashnikov. In Calabria, però, ho visto pure tanti scempi ambientali. Ho visto una speculazione edilizia che ha deturpato irrimediabilmente scorci naturalistici bellissimi. Ho visto disastri idreogoligici ed ambientali, frutto di una scellerata politica di gestione del territorio. Anche in questo ritengo che la cultura ed il rispetto dell’ambiente siano valori che solo le scuole e l’istruzione possono dare ai giovani di oggi, che saranno i buoni cittadini di domani.
Qualche esempio?
A Castelbuono come in Calabria c’è un parco naturalistico ed una vasta area boschiva. A Castelbuono, come in Calabria, ci sono tanti onesti lavoratori, che operano nel mondo della forestazione. Ebbene, i boschi di Castelbuono non si sono mai incendiati, mentre quelli calabresi vanno in fumo inesorabilmente, anno dopo anno. Questa, per me non è solo una casualità e con questo penso di averle pure dimostrato come, una certa cultura della legalità e del senso dello Stato, non valgono solo nel contrasto alla mafia, ma si traducono anche nel rispetto dell’ambiente, che equivale al rispetto del prossimo, al pari di come si rispetta se stessi.
Stato, Giustizia e Verità. Quale al primo posto?
Indubbiamente al primo posto c’è la “Verità”. Non c’è “Giustizia” senza “Verità” e non ci può essere “Stato” senza “Giustizia”. Per “Giustizia” non intendo però una “giustizia di plastica”. Una giustizia che, come vogliono alcuni, sia forte ed inesorabile con i deboli e debole ed indulgente con i forti. Una giustizia delle “carte a posto”, come la concepisce qualcuno in Calabria e come altri, lontano dalla Calabria, vorrebbero che fosse la giustizia calabrese. Una “Giustizia” che abbia la capacità prima di tutto di guardare dentro se stessa, di rinunciare ad interessi, privilegi e compromessi con il potere, guardando solo alla ricerca della “Verità” ed al rispetto ed all’applicazione della “legge”. Di una “Giustizia” semplice, rapida, indipendente ed efficace, che abbia la stessa capacità di dirimere i conflitti sociali e farsi valere nei confronti di tutti coloro che sbagliano. Mafiosi, ndranghetisti, trafficanti di droga e se del caso politici e colletti bianchi. Penso ad una “Giustizia” silenziosa e non protagonista, che venga amministrata anche in Calabria non in nome di una “casta”, ma “in nome del popolo”, proprio come vuole la Costituzione. Penso ad una “Giustizia” che anche in Calabria possa affermare il primato della “Legge” e nell’affermarlo faccia valere il principio di una “Legge” che “sia uguale per tutti”. Può darsi che io, per il solo fatto di credere in queste cose, venga considerato un eretico, un eversore o addirittura un folle. E’ forse è anche per questo che risulto un consulente scomodo ed inadeguato, specie per qualche magistrato. Poco mi importa e di questo, comunque, non voglio parlare. Dico solo che confido ancora nella Giustizia e nel tempo. Insieme hanno sempre saputo dare ragione ai giusti.
Nella biografia di un “mascalzone”, da lei stesso redatta, traspare un forte senso dello Stato, dello stato di diritto, delle Istituzioni, e delle “divise” degli avvocati e dei giudici. Scrive anche che “chi fa il proprio dovere con onestà e professionalità non ha nulla da temere da chi lo fa allo stesso modo dall’altra parte”, perché?
Non vorrei lei facesse un’enfasi dei miei concetti. Non vorrei nemmeno sembrare retorico. Non penso di avere scoperto l’acqua calda, scrivendo quello ho scritto nel mio blog “Legittima difesa” (http://gioacchinogenchi.blogspot.com/). Io sono un uomo semplice e vivo di cose semplici. Dal mio modo di vestire agli alimenti di cui mi nutro, bado solo alla qualità di tutto quello che faccio, che dico, al pari dei cibi che mangio. Non amo le cose sofisticate e prediligo le cose semplici e genuine. Il senso dello Stato per me è il modo di essere e di concepire la vita, che qualunque cittadino dovrebbe avere e sentire dentro di sé, specie quando è chiamato ad esercitare pubbliche funzioni. Quando queste funzioni non sono solo meramente amministrative, ma raggiungono anche gli ambiti della giurisdizione penale, il senso dello Stato e della legalità devono essere maggiori, come pure il livello di guardia da mantenere, per evitare che questi principi vengano compromessi. Mi spiego meglio. Chi, con il proprio lavoro, di investigatore, di pubblico ministero, di avvocato o di giudice, può incidere irreversibilmente nel compromettere il bene giuridico più importante per ogni uomo, dopo la vita, qual è appunto la libertà personale, dovrebbe rappresentarsi in ogni momento della propria giornata l’importanza di questi valori e di questi principi. In questo, non a caso, faccio anche riferimento agli avvocati, posto che non vi potrà mai essere una “giustizia giusta” se non sono state date all’indagato tutte le garanzie di difesa previste dall’ordinamento. E lì che i difensori hanno un ruolo fondamentale, posto che il risultato della loro concreta capacità ed applicazione professionale, in uno con quella dei pubblici ministeri e delle altre parti del processo, rende credibile per i cittadini (il popolo) il risultato dell’attività giurisdizionale. I processi e le sentenze, altrimenti, risulterebbero solo una fictio, né più e ne meno del processo di Kafka o di un film di Totò o di Alberto Sordi.
Scrive anche che la mafia rispetta “il processo, le leggi e le sue regole” e che “non tenta i golpe”. Cosa vuole dire? C’è un riferimento alle vicende calabresi ed alla sentenza Lo Piccolo ed a quelle delle stragi, che lei cita nel suo blog?
Senza dubbio. La mafia ed i mafiosi, tanto quelli siciliani che quelli calabresi, nella loro assurda ed aberrante condotta violenta e sanguinaria, alla fine hanno accettato e subito le indagini ed i processi. In certi casi hanno cercato di corrompere giudici ed investigatori, per non farsi indagare e processare. In altri casi, quando non hanno potuto fare altrimenti, li hanno pure uccisi. In tutti i casi, però, si sono fatte le indagini ed i processi. Nelle vicende calabresi, che non riguardavano nemmeno fatti di mafia, non si è nemmeno potute proseguire delle indagini iniziate, posto che si è cercato subito di impedirle, di bloccarle con ogni mezzo. Di più non posso dire per quello che è il mio ruolo. Spero che di questo si siano resi conto quelli che hanno il compito di farlo. Io, come dicevo, sono sempre fiducioso nella “Giustizia”. E’ una macchina che spesso procede a rilento, ma alla fine raggiunge il traguardo. Quello di cui mi rammarico, purtroppo, sono tutte le “fermate” che questa macchina ha fatto lungo il tragitto ed i numerosi “passeggeri” che ha lasciato per strada. Io ho la coscienza a posto e sono sereno. Non penso che altri protagonisti di questa vicenda possano dire di avere la mia serenità. In questo senso lo specchio del bagno di casa mia, dove mi guardo la mattina quando mi alzo dal letto, è il migliore giudice. Io vedo nel mio specchio un uomo fiero e sorridente. Voglio solo augurarmi che gli specchi dei bagni di altri, possano avere la stessa fortuna del mio.
E’ vero che ha intercettato dei giornalisti?
Nella mia vita non ho mai intercettato nessuno. Sfido chiunque a dimostrare il contrario, ma non ho mai eseguito una, che si dica una sola, intercettazione telefonica o ambientale. Io mi limito ad elaborare ed analizzare dati ed atti processuali che pubblici ministeri e giudici si determinano di acquisire nel pieno rispetto delle norme di legge e con il controllo costante delle parti processuali, a cui vengono sottoposte le acquisizioni e le mie relazioni, dopo il loro deposito. Non commento quello che viene scritto da alcuni ben precisi organi di stampa. I calabresi non mi conoscono ma, fortunatamente, conoscono molto bene chi scrive certi articoli. Io posso solo dirle che annovero alcuni giornalisti fra i miei migliori amici. In uno Stato democratico considero fondamentale il ruolo ed il controllo della stampa, anche dell’attività giurisdizionale, come delle politica e dell’amministrazione della cosa pubblica. Dopo avere detto di me che avrei intercettato il Presidente del Senato, il Vice Presiedente del CSM, i Procuratori ed i politici di mezza Italia, adesso, e non a caso, ci hanno messo dentro pure i giornalisti, tirandone dentro in tanti, nel tentativo di nascondere i pochi. Anche in questo io ho la coscienza a posto e con me il giudice Luigi de Magistris. La solidarietà che mi giunge da tanti coraggiosi magistrati calabresi, dai tanti poliziotti, carabinieri e finanzieri con cui lavoro, si aggiunge a quella dei giornalisti democratici come lei, che non hanno nulla da temere dalla mie presunte ed in verità inesistenti “intercettazioni”. Con lei i tanti calabresi onesti che mi scrivono alla mia e-mail e sul mio blog, anche con telefonate e messaggi personali di solidarietà e di affetto, che mi danno la forza di continuare. La Calabria come la Sicilia sono delle regioni meravigliose, come meravigliosa è la loro gente che con forza chiede allo Stato ed alle sue istituzioni un segnale di giustizia. Auguriamoci solo che queste tante persone per bene non rimangano ancora una volte deluse, dopo tutto quello che è successo. Non posso dirle altro nel merito del mio lavoro, per il dovere di riserbo che mi costringe a tacere, anche a costo di subire come sto subendo le accuse, le calunnie e le umiliazioni più infamanti, solo per avere accennato a fare il mio dovere, al servizio di un magistrato giovane ed onesto, qual è appunto Luigi de Magistris. Gli hanno tolto le indagini e mi hanno revocato gli incarichi, ma nessuno riuscirà a togliermi la libertà di pensare e di agire come ho sempre pensato ed agito. In piena libertà ed indipendenza, al servizio dello Stato, della Verità e della Giustizia.
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