Io non conoscevo Giuseppe Gatì. Non ho mai sentito parlare di lui, se non alla sua morte. Io non avevo mai sentito la sua voce. Forse è questo il bello di internet: essere vicini quando si è lontani. Io non sapevo chi fosse Giuseppe Gatì, prima del suo assurdo e tragico incidente. Eppure mi è bastato vederlo in qualche file perché mi comunicasse qualcosa.
Quella fresca e pura voglia di vivere.
Quella fresca e luccicante voglia di indipendenza.
Quella fresca e lancinante voglia di libertà.
Quella fresca e fiera voglia di verità che non si lascia fermare dalla mediocrità dei vari programmi televisivi che riescono a convincerti che, nonostante tutto, la “personalità” di Vittorio Sgarbi può esulare dall’educazione e dai reati.
Quella fresca, e senza sotterfugi, voglia di etica, bay passata dai politicanti di oggi.
Giuseppe Gatì mi ha comunicato che la filigrana del substrato sociale, dell’apparenza, mediata dai visibili mezzi di comunicazione dell’uomo di oggi non vale niente.
Giuseppe Gatì era figlio del coordinatore provinciale del Pd di Licata. Giuseppe Gatì quando si permise di contestare Sgarbi e fu portato via a malo modo dai vigili urbani e dalla polizia, si preoccupò solo del padre. Delle ripercussioni, a livello di partito, nei confronti del padre. Forse questo ha rappresentato un limite alla sua sete di libertà. Ma ancora di più ne fa apprezzare la sua “primitività” di sentimenti, di valori. Era suo padre. Il suo chiedersi nell’intimo l’attendibilità delle scelte. Alla fine la politica viene fatta dagli uomini, non dagli schermi televisivi. E gli uomini si chiedono. Si domandano se è giusto. Se lo domandano! Una verità offuscata e sempre rimandata al giorno d’oggi. Che la velocizzazione dei meccanismi dell’apparenza non ti permette. Eppure, gli stessi meccanismi per convincerti che quel partito è quello giusto, quello vicino alla gente, fanno leva proprio sui sentimenti, che volontariamente loro, autori di simili strategie e abili accalappiatori di consensi, saltano come accessori.
Quando la sua voce si scaglia contro Sgarbi, questi mostra lo stesso copione, non capisce che la sua accusa, di Giuseppe, non era alla stregua dei suoi simili. Partiva dall’animo. E se non fosse stato per gli intervenuti che lo hanno bloccato, probabilmente, a cedere sarebbe stato proprio il famoso critico d’arte perché la sua, di Giuseppe, non era una maschera adottata per secondi fini. Ma per un fine primario. Sgarbi, almeno per onore a tanto candore di libertà, avrebbe lui gettato la maschera. Ma lo hanno fermato. Hanno capito subito che non si trattava del solito contestatore. Lui sì, avrebbe battuto Sgarbi, ecco perché gli hanno chiuso la bocca. All’Italia va bene così. Che continui a essere la televisione la maestra. La televisione dove viene pagata a peso d’oro la presenza di Sgarbi perché piace vederlo litigare, dire parolacce, bestemmiare. Probabilmente alle stesse persone che si vergognano di usare lo stesso linguaggio. Eppure, preferiscono che esca dalla bocca di Sgarbi, e che provano un sottile piacere ogni qualvolta l’interlocutore di turno esce sconfitto da un confronto con il neo sindaco di Salemi. In fondo è anche una loro vittoria. Ma che beffardo il destino! VIVA CASELLI! VIVA IL POOL ANTIMAFIA!
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