26 febbraio 2009

Questo matrimonio non s’ha da fare. Parola del Vescovo di Lamezia Terme

Caricatura a cura del blogger Da story

Questa è una storia degna di una rivisitazione da cima a fondo de “I promessi sposi”. Che modernizza l’amore osteggiato fra Renzo e Lucia del seicento ai giorni nostri. Con delle new entry eccezionali, che avrebbero fatto impallidire anche il cattolicissimo Alessandro Manzoni: Antonio Saladino, leader di Comunione e Liberazione, e Antonio Cantafora, Vescovo di Lamezia Terme. La storia è presto detta: lei è Katia Fazio, una bella ragazza di 27 anni, che lavora in una società di Antonio Saldino. Lui è Vincenzo Falvo, sposato e suo collega di lavoro. I due si innamorano, e lui abbandona la propria donna per iniziare una nuova vita con lei. Qualcuno non è contento di come sono andate le cose e si rivolge al Vescovo, il quale chiede a Saldino di licenziare la ragazza e di trasferirla in un'altra società. Lei non ne vuole sapere, è troppo innamorata di lui. La pressione verso di lei allora si fa più forte. Una notte entrambi ricevono delle minacce via sms. Lei non ci sta e manifesta l’intenzione di rivolgersi a un avvocato per sporgere denuncia. Siccome le vie brevi non bastano più, si passa all’antica. Alle maniere forti. Viene aggredita alle spalle da alcuni sconosciuti, immobilizzata contro la fiancata della sua autovettura e con un coltello le sfregiano il viso e la feriscono al collo. Al momento le indagini sono in atto, e curate dalla Sezione Criminalità Organizzata della Squadra Mobile della Questura di Catanzaro, che ha pure verbalizzato la denuncia di Katia Fazio e le dichiarazioni del suo compagno, Vincenzo Falvo.
La telefonata fra il Vescovo e Saldino è del 9 marzo 2006. Quel giorno l’imputato principale di Why not si è sentito al telefono non solo con il Prelato della sua Chiesa, ma anche con Clemente Mastella, prossimo ministro della Giustizia. Neanche don Rodrigo sarebbe arrivato a tanto. Lui si è accontentato di mandare i suoi bravi per scongiurare il matrimonio di Lucia, di cui si era invaghito. Quel “qualcuno” di oggi, invece, ha chiamato direttamente il vescovo, che poi ha contattato Saladino. E poi non si sa chi altro sia intervenuto a sfigurarla. E soprattutto da chi sia stato mandato. Certo è che la logica degli eventi fa pensare a una consecutio temporum con pochi dubbi sui personaggi dei Nuovi Promessi Sposi.
E’ questo uno spaccato del “Sistema Saladino”: dare lavoro agli amici e ai figli dei suoi amici bene, dei potenti, politici, magistrati, avvocati e forze di polizia, e assecondare tutte le loro richieste, a patto di un ritorno in finanziamenti e capacità di allargare i propri orizzonti proporzionali al potere appena acquisito con il nuovo assunto. Così commenta Gioacchino Genchi, ex consulente del pm Luigi De Magistris, la conversazione fra il leader della Compagnia delle Opere e il Pastore della Chiesa di Lamezia Terme: “Il sistema delle raccomandazioni e delle contro-raccomandazioni non ha riguardato solo gli aspetti clientelari delle assunzioni e dei licenziamenti, ma si è esteso al pieno controllo e condizionamento fisico e morale dei giovani occupati, anche sulla base di valutazioni sulla condotta sentimentale e sui legami affettivi dei lavoratori impiegati. Sintomatica è al riguardo la lunga conversazione della sera di giovedì 09-03-2006 il Vescovo di Lamezia Terme ed Antonio Saladino, in cui il Saladino rassicura il prelato sul licenziamento e la riassunzione in un'altra società (con sostanziale spostamento dal posto di lavoro originario), di una ragazza lavoratrice che avrebbe insidiato, nel precedente posto di lavoro, un uomo sposato, facendolo lasciare con la moglie”.
E’ questa una pagina in cui sembra di sentire il pericolo dei “fili dell’alta tensione” che aveva avvertito lo stesso magistrato e che ha fatto saltare prima lui, due volte, con l’avocazione e il trasferimento, e poi tutti quelli che hanno provato a sgominarli, lo stesso consulente, con la revoca dell’incarico, e il procuratore di Salerno, Luigi Apicella, insieme ai suoi pm, Gabriella Nuzzi e Luigi Verasani, che stavano chiudendo il cerchio su quella è stata ribattezzata la "Nuova P2". I fili sono ancora scoperti, ma guardati a vista dal Csm, Consiglio superiore della magistratura, e dal Copasir, comitato per la sicurezza della Repubblica. Nessuno ci si deve avvicinare. Fanno male, molto male.

25 febbraio 2009

Regione Calabria, l'esercito dei consulenti


Sono un centinaio le consulenze decise dalla giunta regionale nei mesi scorsi per l'anno corrente. Vanno dalle collaborazioni occasionali a quelle professionali. Dalle collaborazioni coordinate e continuative alla semplice nomina di componente esperto. Sono tutti esperti, ognuno in un campo ben definito, program manager, nella gestione amministrativa e contabile, per la tutela della salute e delle politiche giovanili. E anche consulenti particolari dei vari assessorati. Fra di essi anche un senatore, un ex membro del Parlamento italiano, non riconfermato nelle consultazioni elettorali dello scorso anno, Nuccio Iovene. E’ consulente del neo assessore all’Ambiente e alla tutela delle Acque, Silvestro Greco, insieme a Pantaleone Andria. Nella stessa delibera viene incaricato come consulente anche Mario Bolognari per l’assessore al Turismo e all’Emigrazione, Damiano Gagliardi. La spesa per la Regione Calabria è di 108 mila euro in tre. Va molto meglio a quelli della “Società dell’informazione”, 34 mila e 560 euro cadauno. A Lorella Vivona, come program manager, a Paolo Strangis, come esperto in programmazione degli interventi, a Elena Console e Gregorio Muzzì come esperti in monitoraggio dei progetti. Fanno parte della struttura di assistenza tecnica all’Accordo di Programma Quadro per soli 144 giornate lavorative. 240 euro al giorno, niente male. Più un rimborso spese che non può superare il limite del 10 per cento del corrispettivo lordo, cioè altri 3 mila e disperi euro. Dello stesso tenore quelli dell’APQ dell’Istruzione: 181 mila e 632 euro per 4 esperti. In media 45 mila ciascuno. Però di giornate lavorative ne fanno un po di più, 180. E sono Guido Mignolli, 49.680 euro, come program manager, Francesco Mollace, 43.984, come esperto in gestione di progetti complessi; Amelia Vito Stellino e Domenico Samà, 43.984 a testa come esperti in gestione amministrativa e contabile. Anche per loro c’è un rimborso spese. Però un po’ più largo del precedente, il limite fissato è del 15 per cento rispetto al corrispettivo. Nello schieramento dei consulenti sono i co.co.co, in genere, a prendere di meno. In particolare quelli delle “attività di supporto per lo svolgimento di attività di completamento e stabilizzazione dei controlli interni”. Solo 23 mila e 370 euro in dodici mesi. E sono Amalia Leonetti, Cristina Mariani, Maria Teresa Iuliano, Simona Lazzaro e Teresa Mosca. Eppure anche per loro è previsto un rimborso spese, che sfiora il 10 per cento, 2.280 euro, questo il limite del plafond. Tra le consulenze non si può non ricordare quella di Maria Petrosello che svolge la stessa attività per due organismi analoghi, per la “Consulta regionale Antimafia”, dipendente dalla giunta, e per la “Commissione regionale per la sicurezza”, dal Consiglio regionale. 4.465 euro per il contratto di consulenza coordinata e continuativa presso la Consulta. Trattasi di un rinnovo, in realtà, dall’anno precedente. Presso la Commissione, invece, un contratto di collaborazione a carattere occasionale. Ma il Consiglio regionale è più generoso della giunta, 10 mila e 935 euro, a fronte della stessa durata della collaborazione, per tre mesi. Nell’esercito dei consulenti, infine, vi sono due veri e propri battaglioni. Il primo è quello in forza presso il Dipartimento numero 12 per l’Accordo di programma Quadro “Beni e attività culturali per il territorio della Calabria – turismo sostenibile e politiche giovanili”. Quasi 400 mila euro per 11 esperti, tra consulenti professionali e collaboratori coordinati e continuativi. Domenico Antonio Mazzei, Maria Rosaria Punzo, Vincenzo Ferrari, Maria Stefania Maddalena Riso, Giuseppina Bruni, Leo Giuseppe Oceano, Paola Ancarani, Concettina Siciliani (consulenti), e Elisabetta Marchio, Valeria Iandria, Marisa Iannello (collaboratori). Il secondo battaglione, invece, è quello della task force Isfol, Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, presso il dipartimento 10, delle Politiche del Lavoro, della Famiglia, delle Pari Opportunità, della Formazione professionale, della Cooperazione e del volontariato. Per loro il compenso varia a seconda se trattasi di collaboratori coordinati e continuativi, che è di 4.465 euro per tre mesi di lavoro, oppure di consulenti professionali, sempre per tre mesi, il cui compenso, però, è superiore, e in alcuni casi anche più del doppio. E sono Daniela Maiore, 4.465 euro; Paolo Malavenda, 4.465 euro; Adelaide Maradei, 4.465 euro; Giuseppe Nicotera, 5 e 400 euro; Roberto Principe, 7.200 euro; Rossano Rizzo, 4.465 euro; Gianluca Romeo, 4.465 euro; Francesco Ivana Scarfone, 10.944 euro; Maria Teresa Sirianni, 4.465 euro; Irene Smorto, 4.465 euro; Leonardo Squillacioti, 4.465 euro; Angela Veraldi, 4465 euro; Alessandro Zito, 8.400 euro; Luisa Zofrea, 4.465 euro; Antonio Battaglia, 4.465 euro; Salvatore Bennardo, 4.465 euro; Adele Bonaro, 4.800 euro; Lorella Brecciaroli, 5.400 euro; Paolo Comporota, 4.465 euro; Michele Conia, 4.465 euro; Andrea Goliani, 4.800 euro; e Giuseppe Guagliardi, 4.465 euro.

Errata corrige

Come mi ha fatto notare l'ingegnere Gianluca Tiesi, in realtà, nonostante il decreto regionale del 18 dicembre 2008, impegni una spesa complessiva di 150.394,33 euro per i quattro consulenti risultati vincitori dell'APQ "Società dell'Informazione" , è stato deciso il seguente corrispettivo: 34.600 euro per il consulente esperto in programmazione e identificazione degli interventi, Gianluca Tiesi (che è subentrato a Paolo Strangis); e 17.625 euro per gli altri collaboratori: Lorella Vivona, in qualità di program manager, e Console Elena e Gregorio Muzzì, in qualità di esperti in monitoraggio dei progetti. Dell'imprecisione mi scuso con gli interessati e con i lettori del blog.

23 febbraio 2009

L'Unità mai compiuta del Medio Ionio. Gli ormoni della campagna elettorale



Sellia Marina, Cropani e Botricello, 25 chilometri di costa e sei fiumare: Simeri, Uria, Scilotarco di Sellia, Scilotraco di Roca,Crocchio e Arango. Una popolazione residente di 16 mila persone, che d’estate si aggira sulle 100 mila. Sellia Marina, Cropani e Botricello, per alcuni il Medio Ionio. Per altri ancora l’Alto Ionio catanzarese. Per tutti: un comprensorio solo promesso. Dopo l’hinterland di Soverato è quello maggiormente ricercato dai vacanzieri di Catanzaro e del Nord d’Italia. Facilmente raggiungibile dagli aeroporti di Lamezia Terme e Crotone vi si trova di tutto: villaggi, residence, ville di 600 metri quadrati, casette e baracche. Ce n’è per tutti i gusti e le tasche. Peccato per le strade, per le fogne e per la schiuma del mare. Di questi problemi si sono riempiti la bocca tutti gli amministratori del passato. Ora, con le prossime elezioni, in programma il 6 e il 7 giugno 2009, lo rifaranno. Già qualcuno si sta prenotando per spararla più grossa degli altri. Del tipo: “Lo sviluppo dipende dalla proficua concertazione fra tutte le istituzioni, per il bene della comunità che non conosce confini con i paesi limitrofi. Da qui la necessità di dotarsi di infrastrutture. Questo fin adesso non è stato fatto. Ma noi ve lo garantiamo. Molto dipenderà anche dalla situazione finanziaria che troveremo”. Quest’ultima frase viene, di solito, pronunciata a bassa voce. Ma è la più importante di tutto il discorso perché se non ci sono i soldi neanche le belle intenzioni si possono realizzare. Ergo, possono continuare a camminare a testa alta. E vai!L’orgoglio calabrese è sempre in vendita da queste parti. Oppure: “Nonostante le grosse difficoltà riscontrate siamo riusciti a …”. Qui bisognerebbe ricordare tutte le consulenze e i lavoretti dati all’avvocato, figlio dell’amico, o al geometra, figlio di un altro amico, per capire come mai neanche l’evidenza viene riconosciuta. Indubbiamente c’è un’evidenza convenuta solo dagli addetti ai lavori che agli altri non è dato capire.
Sellia Marina, Cropani e Botricello, tre Comuni distinti e un comune denominatore: “tirare a campare”. Come si tira a campare? Svolgendo opere non per l’interesse della comunità, ma per il proprio. Ma se tutti fanno questo alla fine uno più uno più uno fanno l’insieme di tutti i cittadini. Suggerisce qualcuno. E no! Non è così perché i poveri cristi rimangono sempre fuori dal circuito che conta. E con loro tutti quei servizi primari che ai “potenti” non interessano perché sono stati proprio i risparmi nella realizzazione del depuratore che gli hanno permesso di comprarsi la mercedes per i viaggi lunghi. E' stata proprio il risparmio sulla qualità dell’asfalto di una strada, che ha registrato magari anche incidenti mortali, che gli ha permesso di comprarsi la smart per gli spostamenti in paese. Sono stati proprio i risparmi sul restauro di un monumento, o di un Castello, che gli hanno permesso di acquistare la villa. E poi se hanno proprio bisogno di farsi una vacanza se ne vanno all’estero con la sfacciataggine di decantare le lodi del mare nostrum.
Ora, con le prossime elezioni, si apre una possibilità per il Comprensorio. Come ogni 5 anni. È l’unica strada per cambiare, non ve ne sono altre. Siccome è quasi impossibile che vengano gli stranieri per governarci, dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo. Di noi stessi.


SELLIA MARINA è una comunità viva. Talmente viva che i cittadini non si accontentano dei circuiti politici esistenti. C’è il circolo “Moro-Berlinguer” del partito Democratico. C’è “Rifondazione della democrazia cristiana”. C’è Alleanza nazionale. C’è il Partito socialista. C’è l’Udc. C’è il Partito dei comunisti italiani. C’è Italia dei valori. Ma anche movimenti, figli naturali del malessere della ridente cittadina. C’è “Opportunità per Sellia Marina” e c’è un movimento che fa capo a Francesco Di Lieto, vicepresidente nazionale del Codacons. E non è escluso che fino alla fine di aprile ne possano spuntare degli altri. Sellia Marina è così viva che tutti si annullano a vicenda.


CROPANI è una comunità nostalgica. C'è il Pd, l’Idv, l’Udc, la Rc. E il Pdl, non riconoscendosi nell’operato di Antonello Grano, sindaco per due mandati, ha formato un movimento vero e proprio: “Cropani Domani”. Cropani è così nostalgica che non riesce a divincolarsi dei partiti. Alla fine vincerà uno messo lì dal partito e votato dalla gente perché lo scambiano per Veltroni o Berlusconi.


BOTRICELLO è una comunità altalenante sul piano dello sviluppo. Sono tutti commercianti, ma ognuno nel suo recinto. Ognuno è profeta a casa sua. Ma quando vanno al Palazzo comunale iniziano i guai. Botricello paga lo scotto della malavita. Tutto il Consiglio comunale si è dimesso lo scorso mese di giugno dopo la sentenza di condanna del sindaco per abuso d’ufficio con l’aggravante del metodo mafioso nell’ambito del processo di primo grado scaturito dall’inchiesta “Puma”. Quelli di minoranza lo avevano già fatto prima. Furbi. Quelli di maggioranza contestualmente alle parole del giudice, per “senso di responsabilità”, hanno riferito. Niente da dire. Qui tutti aspettano l’homo novus.


Volete i nomi?
A Sellia Marina tornerà a vincere Giuseppe Amelio, con un nuovo governo di larghe intese, se non si candida Antonio Biamonte, a cui gli elettori farebbero confluire il mare delle promesse disattese.


A Cropani sarà una dura battaglia con due giovani segretari, Giuseppe Talarico, del Pd, e Giancarlo Pitari, del Pdl, che non hanno mai svolto impegni amministrativi. Ma non è questo il problema, il problema è che forse sono solo di facciata per altri new entry all’ultimo momento e costretti, loro malgrado, a fargli la campagna elettorale.


A Botricello, chiuso il capitolo dei Puccio, c’è fermento nel Partito democratico. Giovanni Camastra, del Pdl, potrebbe spuntarla sulle infinite riunioni e le cene imbandite dell’amico di Franco Amendola. Ma il suo trasformismo con lo stesso Pd potrebbe favorire Tommaso Laporta che nelle ultime elezioni ha avuto 150 voti in più dell’ex sindaco Michelangelo Ciurleo.

20 febbraio 2009

Sellia Marina (CZ), quelle consulenze di troppo


Un posto di lavoro? No, basta una consulenza. Meglio di un contratto a tempo determinato. Nessuna trafila per studiare e spuntarla sugli altri concorrenti in lunghi e rarissimi, oramai, concorsi pubblici, fatti di estenuanti esami, scritti e orali. A Sellia Marina sembra una prassi. Sono almeno sei le consulenze che si trascinano da un po’ di anni, su “chiamata ad intuito personale” della giunta comunale. Fino alla scadenza del mandato elettivo del sindaco, Giuseppe Amelio. Fino alle prossime elezioni, in programma il 6 giugno 2009. L’area tecnica è la più folta. Vi sono Belmonte, Dardano, Durante, Garcea ed Elia. Ma quella, protocollata lo scorso 2 gennaio, di cui è beneficiaria Elisabetta Dardano, per l'incarico di funzioni apicali nel settore delle “Attività economico finanziarie”, in realtà, è un rientro. Di lusso. Esattamente due giorni prima, infatti, era andata in pensione dopo quasi quarant’anni di onorato servizio nell’ufficio comunale. Uscita dalla porta principale con una più che meritata liquidazione, vi è rientrata senza fare in tempo nemmeno a disfare le valigie. Eppure era stata lei stessa che aveva dato del filo da torcere alla stessa Amministrazione, nei mesi scorsi, non firmando inizialmente, come responsabile dell’area contabile, l’assunzione di un nuovo vincitore del concorso pubblico, appena espletato dal Comune per mancanza di copertura finanziaria. Tanto che aveva indirizzato una missiva a tutti gli organi dell’Ente, amministrativi e dirigenziali, in cui lamentava: “il bilancio di previsione per l’esercizio 2008, approvato dal consiglio comunale in data 29 maggio 2008, per come strutturato le fonti di entrata al momento non garantiscono la spesa scaturente dall’attuazione di quanto deliberato da codesta Giunta”. Un braccio di ferro con la maggioranza dell’Amministrazione comunale e il segretario che fu poi risolto in qualche modo. Con la sua stessa riammissione nel libro paga dell’Ente i conti ora sembrano quadrare. Ben sei concorsi banditi, nel 2006 e ultimati da pochi mesi, proprio per colmare l’insufficienza delle risorse umane del Comune, cui sarebbe dovuta seguire una parallela riduzione della ricorsa alle consulenze. Ente che recentemente si è dotato, quindi, di un istruttore direttivo tecnico, di un istruttore direttivo contabile, di un istruttore direttivo amministrativo, di un ispettore di polizia municipale, di un ispettore tecnico, e di due, anziché uno, come era nelle intenzioni originarie del concorso, agenti di polizia municipale. Evidentemente questo personale nuovo di zecca non basta, il Comune di Sellia Marina ha ancora bisogno delle consulenze. Fino alle prossime elezioni.

17 febbraio 2009

Verità, Giustizia e Stato. Il sogno di Gioacchino Genchi


Il tempo passa. Scorre. Inesorabile. Ma certe volte sembra avere nostalgia di se stesso.
È il caso di alcuni tormentoni giudiziari calabresi. Come le inchieste avocate a Luigi De Magistris, poi trasferito. Stessa sorte al procuratore che ha indagato sulle sue accuse, Luigi Apicella. Un tormentone che non si ferma. Che si ripete. Senza fare storia. Senza il là decisivo della storia. In una battaglia verso la salvaguardia della democrazia che sta facendo cadere uno a uno tutti i suoi paladini. Come dei birilli. Ma ci sono parole, dichiarazioni che sono lì. Che ne fanno già parte, come testimoni inascoltati delle note dello stesso pentagramma. Che aiutano a capire il perché.
È il caso di un’intervista al consulente del pm napoletano, Gioacchino Genchi, che mi ha rilasciato nel mese di dicembre 2007, all’indomani della rimozione dell’incarico. In tempi non sospetti, come si dice, rispetto agli ultimi sviluppi. Che ripropongo integralmente.

Il mascalzone in balia dello Stato
Dalle stragi del ’92, dove persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, passando per Scopelliti fino a De Magistris. Gioacchino Genchi ricostruisce un percorso, il suo, che è parallelo a quello di uno Stato che vuole essere presente per contrastare l’illegalità, evidenziando limiti e pregi di un rapporto fra politica e magistratura che si sta facendo sempre più sottile.Dopo gli eccidi del ’92 in Sicilia “si sono alzati degli steccati separando quelli che stanno da una parte e quelli che stanno dall’altra”, dice. “In Calabria, invece, ancora non ci sono, oppure non li ho visti”, ammonisce. E anticipa a “L’opinione” alcuni appunti (che sta raccogliendo in un libro) sull’uccisione del giudice Scopelliti, di cui Falcone “è stato preveggente”, ricorda. Si sbarazza delle calunnie, infine, di cui è vittima anche da organi istituzionali, così: “è solo per aver prestato il mio servizio a un magistrato giovane e onesto, quale è appunto Luigi De Magistris”.


Quando le hanno revocato la consulenza “Why Not” ha scritto: “mi hanno revocato gli incarichi, ma non mi possono togliere la voglia di sorridere”. Quanto è importante l’ironia nella sua vita?
La mia capacità di sorridere per quanto era successo equivaleva, ed equivale, alla capacità che altri avrebbero dovuto avere per piangere. Ritengo dei fatti veramente inauditi quelli che sono accaduti negli ultimi mesi a Catanzaro. Ne ho parlato con un giornalista straniero, che segue da anni vicende di mafia e nonostante tutto stentava a credermi. Se ci fossimo trovati in una partita di calcio, i fischietti dell’arbitro e dei guardalinee si sarebbero incantati. Nella vicenda di Catanzaro questo non è accaduto, solo perché l’arbitro ed il guardalinee si sono confusi con i falli dei vari giocatori. Le reazioni degli spettatori e della società civile, anche se definiti da taluno una “invasione di campo”, mi pare confermino che non mi sto sbagliando. La gente per bene non si lascia prendere in giro ed ha capito perfettamente quello che è successo a Catanzaro. Hanno messo il bavaglio ai giudici. Ai politici ed ai giornalisti democratici hanno chiesto di abbassare i toni. Ai comici ed ai satiri hanno cercato di zittirli con le querele. Hanno persino cercato di bloccare le fiction televisive, quando dovevano esaltare la dignità dello Stato e della Giustizia nella lotta alla mafia, dopo avere dato una falsa mitizzazione dei mafiosi. Che altro c’è da aspettarsi?
Partiamo da lontano, dalla sua infanzia. Quanto ha influito nel suo lavoro l’essere sempre a contatto con i libri nella libreria di suo padre?
Quando ho frequentato la prima elementare, già sapevo leggere e scrivere. Oggi è una cosa che capita spesso a molti bambini. Allora un po’ meno. I numeri erano la mia passione. Ricordo che mi piacevano più le sottrazioni che le addizioni. Non a caso, ancora oggi, difficilmente mi “addiziono” e molto spesso mi “sottraggo”. A parte l’ironia, io ho fatto pure l’asilo nella libreria di mio padre. In quella libreria, già in prima elementare mi sentivo all’università. Ho letto un’infinità di romanzi per bambini. Ancora oggi trovo ispirazioni in quelle prose. I “Viaggi di Gulliver”, ad esempio, come altre opere dello scrittore irlandese Jonathan Swift, hanno affinato la mia fantasia e la satira, in un misto di ironia tutta castelbuonese. I romanzi di Jules Verne, i primi gialli, hanno fatto il resto. Non avevo ancora compiuto 10 anni quando ho letto “Il Padrino”. Fu così che mandai in soffitta i racconti di Italo Calvino, per dedicarmi a letture più impegnative, con contenuti storici e politici. La storia della Sicilia e della mafia cominciarono ad essere le mie letture preferite. Nel 1975, la lettura de “Il Prefetto di ferro” di Arrigo Petacco e dei primi libri sulla storia della mafia, hanno sostanzialmente segnato le mie scelte professionali di molti anni dopo.
Mi parli della famosa “marcia a piedi” da Castelbuono a Cefalù con i suoi compagni delle scuole superiori.
Quella è stata una delle tante iniziative di protesta del movimento studentesco madonita di quel tempo. Forse la più clamorosa, anche per la diffusione mediatica che ha avuto. Ancora oggi viene ricordata come un momento di grande conquista civile dai miei coetanei e dagli anziani, che avevano la nostra età di adesso. All’epoca gli istituti scolastici superiori erano concentrati nei comuni più grandi delle province siciliane. Chi voleva proseguire gli studi, doveva servirsi degli autobus di linea o dei treni. Per questo, solo i figli delle famiglie benestanti potevano permettersi il costo degli abbonamenti mensili, che si sommavano agli oneri dei libri, necessari per frequentare le scuole superiori. La conseguenza pratica era che tanti giovani promettenti e volenterosi, di origini umili e contadine, non potevano consentirsi queste spese ed erano costretti, inesorabilmente, ad abbandonare gli studi.
E dopo che successe?
Dopo quella rocambolesca iniziativa della marcia a piedi a Cefalù, la Regione Siciliana varò una legge, che oggi garantisce a tutti gli studenti siciliani il pagamento dell’abbonamento mensile dei mezzi di trasporto, per frequentare qualunque scuola. Quella non fu che una delle tante iniziative di protesta civile di quegli anni. Altre battaglie furono fatte per la realizzazione degli istituti scolastici. All’epoca, quasi tutte le scuole erano ubicate in locali precari e presi in affitto, dagli immobiliaristi della zona. Gli Enti locali, per anni, avevano fatto finta di considerare la scuola come un optional della società. I problemi della scuola e degli studenti venivano affrontati con pressappochismo. L’unica attenzione dei politici era rivolta alla stipula dei contratti di locazione con i privati, rinnovati sempre a condizioni capestri per la pubblica amministrazione. I fondi dei bilanci degli Enti locali, praticamente, si trasferivano nei portafogli degli immobiliaristi, per i canoni degli affitti da capogiro. Nessuno pensava a costruire delle scuole, moderne e funzionali. Qualunque saggio amministratore, come un buon padre di famiglia, avrebbe pensato a stipulare un mutuo e, con non molto meno di quello che pagava per gli affitti, avrebbe costruito degli edifici scolastici nuovi e funzionali. Ebbene, con le occupazioni degli istituti e delle aule consiliari dei comuni, quando minacciammo che avremmo pure occupato il Duomo di Cefalù, si decisero a finanziare la costruzione delle nuove scuole, realizzate nelle aree frattanto espropriate. Dopo anni, quelle scuole sono state costruite ed oggi, con tanta commozione ed orgoglio, ci ritorno ogni anno, nella giornata del 23 di maggio, in occasione delle commemorazioni delle vittime della strage di Capaci del 1992, in cui furono trucidati (con l’esplosione di tutte e due le carreggiate di un’autostrada) il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti scorta. Fra quei poliziotti c’erano pure dei miei amici, fra cui Falcone, con cui avevo pure lavorato. Non riesco a descrivere la commozione che provo, ogni anno, nel parlare a quegli studenti, in quelle scuole. Fra loro ci sono anche i miei figli. Di molti altri ragazzi, solo dal rassomiglio dei volti, riesco a intuire il profilo delle loro madri e dei loro padri, che furono i miei compagni di scuola di quel tempo, in quelle battaglie civili e democratiche per il diritto allo studio e per una scuola migliore. Quelle scuole che per noi erano un sogno, oggi sono una realtà per i nostri figli. Questo rapporto con i giovani e con la scuola, a cui ho sempre tenuto, lo ritengo il momento più importante del mio essere poliziotto, cittadino e consulente dell'Autorità Giudiziaria. Forse qualcuno, ancora adesso, non lo ha ancora capito. Se si vuole migliorare e far crescere una società e se si vuole veramente debellare la mala pianta della cultura mafiosa, è proprio sui giovani e sulla scuola che bisogna puntare. Le leggi eccezzionali, il carcere duro per i mafiosi ed i corpi speciali di polizia, servono ben poco per combattere la mafia, quando questa si annida in una pseudo cultura, alla quale si ispirano ancora oggi molti giovani, specie in Calabria, per le deficienze ed i li miti di una sana cultura della legalità e del rispetto dello Stato. Ero e sono convinto che sotto il profilo della prevenzione criminale e mafiosa, ad esempio, un bravo insegnante elementare o di scuola media, come un professore di liceo, possano dare un contributo maggiore e più efficace nel contrasto alla cultura mafiosa, più di quanto non possano fare un maresciallo dei carabinieri o un commissario di pubblica sicurezza messi insieme. Non sono solo i mafiosi in quanto tali ad essere pericolosi per la società, ma è la cultura ed i messaggi subliminali che riescono a trasmettere ai giovani che, in prospettiva, rappresentano il pericolo maggiore.
Che cosa ha di speciale il suo paese, Castelbuono, che giudica così “civile e democratico”?
Mi riferisco alla storia di Castelbuono e delle Madonie. Nell’hinterland madonita, ed in paesi distanti pochi chilometri in linea d’aria da Castelbuono, hanno trovato i natali pericolosissimi boss mafiosi di “Cosa Nostra”. Dalle iniziative rocambolesche di Cesare Mori (il Prefetto di ferro) con l’assedio di Gangi, fino ai nostri giorni, la storia giudiziaria ce lo conferma. Autorevoli pentiti hanno definito le “Madonie” la Svizzera di “Cosa Nostra”. Alcuni dei capi mafia della Madonie, che partecipavano in modo autorevole alla “Commissione” di “Cosa Nostra”, con Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono stati condannati all’ergastolo, per la partecipazione alle stragi del 1992 e per tanti altri crimini. Orbene, nonostante le influenze del triangolo mafioso dei paesi vicini, Castelbuono ha rappresentato da sempre un’oasi di legalità.
Si spieghi meglio.
Intendo dire che Castelbuono ha sempre saputo mantenere intatta una cultura civile e democratica, unita ad un profondo senso dello Stato e rispetto delle istituzioni e delle sue leggi. Questi valori, che sono comuni nel modo di essere di ogni castelbuonese, hanno bloccato sul nascere qualunque possibile infiltrazione mafiosa, tanto nel mondo dell’imprenditoria, che della politica. In questo, mi sia consentito, credo che più di tutti abbiano inciso la formazione e la tradizione culturale dei castelbuonosi. Sono tantissimi, in tutto il mondo, gli studiosi e gli scienziati di Castelbuono, che si sono distinti ognuno nelle loro professioni. Dai ricercatori universitari ai giornalisti, dai medici agli scienziati e financo ai sacerdoti ed ai vescovi. Tutti i castelbuonesi nel mondo si sono fatti portatori della cultura della semplicità e del bene. Di una semplicità che non è ipocrisia, ma che è profondo rispetto del prossimo e che, nel rispetto del prossimo, è rispetto dello Stato e delle sue leggi. In questo senso ritengo il mio paese un esempio di civiltà e di democrazia, anche per la forte vocazione sociale che accompagna l’impegno lavorativo, i rapporti interpersonali ed il modo di essere di noi castelbuonesi.
Quanti Castelbuono ci sono in Sicilia?
Non è facile fare una statistica o ancora di più una “graduatoria”. Non vorrei, in questo, essere travisato. Quando parlo di Castelbuono sicuramente lo faccio con la nostalgia di chi vive nel ricordo del proprio paese e della propria infanzia. Lungi da me ogni velleità di campanilismo. Peraltro, vivo a Palermo, viaggio di continuo e riesco a raggiungere Castelbuono solo per poche ore, in pochi giorni dell’anno. Posso confermarle, però, che quella che è la cultura civile ed il senso dello Stato che colgo a Castelbuono, lo ritrovo oggi in molti altri comuni del circondario e della Sicilia. Anche in paesi che hanno avuto nel passato forti caratterizzazioni mafiose, da Corleone a Mistretta, da San Mauro Castelverde e Gangi. In questo, mi sia consentito, rivedo ancora una volta il contributo dei giovani e della cultura. Dai bravi maestri della scuola elementare fino ai professori delle medie e delle scuole superiori. In Sicilia, per mano della mafia, abbiamo pagato un contributo di sangue e di dolore che non ha eguali in nessuna parte del mondo. Una vera guerra, in cui oltre ai mafiosi sono stati trucidati magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, sacerdoti, uomini delle istituzioni e della politica, inermi cittadini e finanche degli innocenti bambini. Noi siciliani, però, abbiamo forse avuto la capacità di riconvertire questo contributo di sangue e di dolore, nella cultura del “bene” e della legalità. Dopo le stragi del 1992, grazie alla grande rivolta della società civile contro le “mafie”, sono stati alzati in Sicilia degli steccati, che hanno separato chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Quegli steccati hanno funzionato e funzionano ancora oggi in Sicilia, in particolare, nel mondo delle istituzioni e della magistratura. In Calabria, se mi consente, questi steccati io non lo ho visti e se ci sono, sono molto ben nascosti. In Calabria come in Sicilia ci sono tante, tantissime, persone per bene. Ci sono tanti, tantissimi, servitori dello Stato e Magistrati che fanno il loro dovere, con impegno e professionalità ed in condizioni di difficoltà che non hanno eguali in nessuna parte d’Italia. Nemmeno in Sicilia. Forse, però, il fatto di non avere visto morire dei propri colleghi fra i magistrati e gli investigatori, non ha dato ad una certa parte delle strutture giudiziarie calabresi quella tensione morale e quel senso della separatezza e dell’indipendenza dalla politica e dagli interesse di parte, che altri uffici giudiziari siciliani hanno saputo darsi e mantenere, dopo le stragi del ‘92.
Ma in Calabria è stato ucciso pure il giudice Antonino Scopelliti?
Si lo so, e mi sono occupato pure di recuperare le originali considerazioni che di quell’omicidio ha fatto nei suoi diari Giovanni Falcone. Anche in questo Falcone è stato preveggente. Quell’omicidio è stato per la Calabria quasi una meteora, come se non fosse avvenuto o come se Scopelliti non fosse un calabrese o, ancora peggio, come se non fosse un magistrato. Qualcuno ha pure considerato che solo per caso Scopelliti è stato ucciso in Calabria. Mi auguro che qualcuno non mi smentisca pure sull’omicidio o peggio sostenendo che Scopelliti è morto per un’intossicazione alimentare. Gli esiti giudiziari delle indagini su quell’omicidio non mi pare smentiscono l’ilarità delle mie considerazioni che, come dicevo, partono dal triste presagio di Giovanni Falcone. Forse molti giovani magistrati che lavorano in Calabria non hanno letto le carte di quel processo. Sto scrivendo su quell’omicidio e sulla vicenda umana dell’uccisione del giudice Antonino Scopelliti un approfondimento, che partirà proprio dalle annotazioni di Giovanni Falcone nei suoi diari, per arrivare ad oggi, nella considerazione di quello che è il ruolo della magistratura calabrese. Se qualcuno al Ministero della Giustizia o al Consiglio Superiore della Magistratura pensa che l’unico problema della magistratura calabrese sia il giudice Luigi de Magistris e allora forse il caso di riflettere seriamente su quelle che sono le reali volontà dello Stato di contrastare davvero l’illegalità e la mafia in Calabria. A proposito del giudice Scopelliti ricordo ancora le risultanze di un’indagine di qualche anno fa, originata proprio dagli scritti di Giovanni Falcone e dal monitoraggio delle sentenze di mafia della Cassazione, che Falcone aveva avviato quando occupava il posto di Direttore Generale degli Affari penali, al Ministero della Giustizia, prima che lo facessero saltare in aria a Capaci. In un’indagine su un magistrato, mi occupai dell’annullamento di un’ordinanza del Tribuanle del Riesame di Reggio Calabria, scritta in modo esemplare da un bravissimo giudice calabrese, Salvatore Boemi. Nei giorni immediatamente precedenti all’udienza della Cassazione che ha annullato quell’ordinanza (che riguardava proprio delle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione) ho rilevato una triangolazione di telefonate fra il fratello degli indagati (pure lui indagato) e le utenze dell’abitazione del Presidente e del Giudice estensore della motivazione della sentenza della Corte di Cassazione, che ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Presidente Boemi, disponendo l’immediata scarcerazioni degli indagati e compromettendo irreversibilmente il seguito di quel procedimento. Mi si potrà obiettare che delle telefonate fra buoni amici non significano nulla, nemmeno quando queste riguardano un Presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed un Giudice che è chiamato a redigere la motivazione del provvedimento di annullamento della misura cautelare, nei confronti di un indagato, fratello di quello che gli telefona e che è pure indagato in quel procedimento. Se nessuno si meraviglia di questo, non c’è nemmeno da meravigliarsi come mai, fino ad oggi, siano rimasti impuniti gli assassini del Giudice Antonino Scopelliti.
Da quando frequenta la Calabria quanti paesi come Castelbuono ha conosciuto?
Ho conosciuto in Calabria tanti pesi e tanti posti bellissimi. Anche molto più belli di Castelbuono. Boschi, spiagge, alture e paesaggi stupendi. Mi rammarico di avere visitato quei posti solo per ricostruire delle dinamiche omicidiarie e delle cruenti stragi. Non sono ancora riuscito ad organizzare una vacanza in Calabria, né un tour turistico, che non segua gli itinerari dei killer ed i luoghi degli agguati di mafia, consumate a colpi di Bazooka e di Kalashnikov. In Calabria, però, ho visto pure tanti scempi ambientali. Ho visto una speculazione edilizia che ha deturpato irrimediabilmente scorci naturalistici bellissimi. Ho visto disastri idreogoligici ed ambientali, frutto di una scellerata politica di gestione del territorio. Anche in questo ritengo che la cultura ed il rispetto dell’ambiente siano valori che solo le scuole e l’istruzione possono dare ai giovani di oggi, che saranno i buoni cittadini di domani.
Qualche esempio?
A Castelbuono come in Calabria c’è un parco naturalistico ed una vasta area boschiva. A Castelbuono, come in Calabria, ci sono tanti onesti lavoratori, che operano nel mondo della forestazione. Ebbene, i boschi di Castelbuono non si sono mai incendiati, mentre quelli calabresi vanno in fumo inesorabilmente, anno dopo anno. Questa, per me non è solo una casualità e con questo penso di averle pure dimostrato come, una certa cultura della legalità e del senso dello Stato, non valgono solo nel contrasto alla mafia, ma si traducono anche nel rispetto dell’ambiente, che equivale al rispetto del prossimo, al pari di come si rispetta se stessi.
Stato, Giustizia e Verità. Quale al primo posto?
Indubbiamente al primo posto c’è la “Verità”. Non c’è “Giustizia” senza “Verità” e non ci può essere “Stato” senza “Giustizia”. Per “Giustizia” non intendo però una “giustizia di plastica”. Una giustizia che, come vogliono alcuni, sia forte ed inesorabile con i deboli e debole ed indulgente con i forti. Una giustizia delle “carte a posto”, come la concepisce qualcuno in Calabria e come altri, lontano dalla Calabria, vorrebbero che fosse la giustizia calabrese. Una “Giustizia” che abbia la capacità prima di tutto di guardare dentro se stessa, di rinunciare ad interessi, privilegi e compromessi con il potere, guardando solo alla ricerca della “Verità” ed al rispetto ed all’applicazione della “legge”. Di una “Giustizia” semplice, rapida, indipendente ed efficace, che abbia la stessa capacità di dirimere i conflitti sociali e farsi valere nei confronti di tutti coloro che sbagliano. Mafiosi, ndranghetisti, trafficanti di droga e se del caso politici e colletti bianchi. Penso ad una “Giustizia” silenziosa e non protagonista, che venga amministrata anche in Calabria non in nome di una “casta”, ma “in nome del popolo”, proprio come vuole la Costituzione. Penso ad una “Giustizia” che anche in Calabria possa affermare il primato della “Legge” e nell’affermarlo faccia valere il principio di una “Legge” che “sia uguale per tutti”. Può darsi che io, per il solo fatto di credere in queste cose, venga considerato un eretico, un eversore o addirittura un folle. E’ forse è anche per questo che risulto un consulente scomodo ed inadeguato, specie per qualche magistrato. Poco mi importa e di questo, comunque, non voglio parlare. Dico solo che confido ancora nella Giustizia e nel tempo. Insieme hanno sempre saputo dare ragione ai giusti.
Nella biografia di un “mascalzone”, da lei stesso redatta, traspare un forte senso dello Stato, dello stato di diritto, delle Istituzioni, e delle “divise” degli avvocati e dei giudici. Scrive anche che “chi fa il proprio dovere con onestà e professionalità non ha nulla da temere da chi lo fa allo stesso modo dall’altra parte”, perché?
Non vorrei lei facesse un’enfasi dei miei concetti. Non vorrei nemmeno sembrare retorico. Non penso di avere scoperto l’acqua calda, scrivendo quello ho scritto nel mio blog “Legittima difesa” (http://gioacchinogenchi.blogspot.com/). Io sono un uomo semplice e vivo di cose semplici. Dal mio modo di vestire agli alimenti di cui mi nutro, bado solo alla qualità di tutto quello che faccio, che dico, al pari dei cibi che mangio. Non amo le cose sofisticate e prediligo le cose semplici e genuine. Il senso dello Stato per me è il modo di essere e di concepire la vita, che qualunque cittadino dovrebbe avere e sentire dentro di sé, specie quando è chiamato ad esercitare pubbliche funzioni. Quando queste funzioni non sono solo meramente amministrative, ma raggiungono anche gli ambiti della giurisdizione penale, il senso dello Stato e della legalità devono essere maggiori, come pure il livello di guardia da mantenere, per evitare che questi principi vengano compromessi. Mi spiego meglio. Chi, con il proprio lavoro, di investigatore, di pubblico ministero, di avvocato o di giudice, può incidere irreversibilmente nel compromettere il bene giuridico più importante per ogni uomo, dopo la vita, qual è appunto la libertà personale, dovrebbe rappresentarsi in ogni momento della propria giornata l’importanza di questi valori e di questi principi. In questo, non a caso, faccio anche riferimento agli avvocati, posto che non vi potrà mai essere una “giustizia giusta” se non sono state date all’indagato tutte le garanzie di difesa previste dall’ordinamento. E lì che i difensori hanno un ruolo fondamentale, posto che il risultato della loro concreta capacità ed applicazione professionale, in uno con quella dei pubblici ministeri e delle altre parti del processo, rende credibile per i cittadini (il popolo) il risultato dell’attività giurisdizionale. I processi e le sentenze, altrimenti, risulterebbero solo una fictio, né più e ne meno del processo di Kafka o di un film di Totò o di Alberto Sordi.
Scrive anche che la mafia rispetta “il processo, le leggi e le sue regole” e che “non tenta i golpe”. Cosa vuole dire? C’è un riferimento alle vicende calabresi ed alla sentenza Lo Piccolo ed a quelle delle stragi, che lei cita nel suo blog?
Senza dubbio. La mafia ed i mafiosi, tanto quelli siciliani che quelli calabresi, nella loro assurda ed aberrante condotta violenta e sanguinaria, alla fine hanno accettato e subito le indagini ed i processi. In certi casi hanno cercato di corrompere giudici ed investigatori, per non farsi indagare e processare. In altri casi, quando non hanno potuto fare altrimenti, li hanno pure uccisi. In tutti i casi, però, si sono fatte le indagini ed i processi. Nelle vicende calabresi, che non riguardavano nemmeno fatti di mafia, non si è nemmeno potute proseguire delle indagini iniziate, posto che si è cercato subito di impedirle, di bloccarle con ogni mezzo. Di più non posso dire per quello che è il mio ruolo. Spero che di questo si siano resi conto quelli che hanno il compito di farlo. Io, come dicevo, sono sempre fiducioso nella “Giustizia”. E’ una macchina che spesso procede a rilento, ma alla fine raggiunge il traguardo. Quello di cui mi rammarico, purtroppo, sono tutte le “fermate” che questa macchina ha fatto lungo il tragitto ed i numerosi “passeggeri” che ha lasciato per strada. Io ho la coscienza a posto e sono sereno. Non penso che altri protagonisti di questa vicenda possano dire di avere la mia serenità. In questo senso lo specchio del bagno di casa mia, dove mi guardo la mattina quando mi alzo dal letto, è il migliore giudice. Io vedo nel mio specchio un uomo fiero e sorridente. Voglio solo augurarmi che gli specchi dei bagni di altri, possano avere la stessa fortuna del mio.
E’ vero che ha intercettato dei giornalisti?
Nella mia vita non ho mai intercettato nessuno. Sfido chiunque a dimostrare il contrario, ma non ho mai eseguito una, che si dica una sola, intercettazione telefonica o ambientale. Io mi limito ad elaborare ed analizzare dati ed atti processuali che pubblici ministeri e giudici si determinano di acquisire nel pieno rispetto delle norme di legge e con il controllo costante delle parti processuali, a cui vengono sottoposte le acquisizioni e le mie relazioni, dopo il loro deposito. Non commento quello che viene scritto da alcuni ben precisi organi di stampa. I calabresi non mi conoscono ma, fortunatamente, conoscono molto bene chi scrive certi articoli. Io posso solo dirle che annovero alcuni giornalisti fra i miei migliori amici. In uno Stato democratico considero fondamentale il ruolo ed il controllo della stampa, anche dell’attività giurisdizionale, come delle politica e dell’amministrazione della cosa pubblica. Dopo avere detto di me che avrei intercettato il Presidente del Senato, il Vice Presiedente del CSM, i Procuratori ed i politici di mezza Italia, adesso, e non a caso, ci hanno messo dentro pure i giornalisti, tirandone dentro in tanti, nel tentativo di nascondere i pochi. Anche in questo io ho la coscienza a posto e con me il giudice Luigi de Magistris. La solidarietà che mi giunge da tanti coraggiosi magistrati calabresi, dai tanti poliziotti, carabinieri e finanzieri con cui lavoro, si aggiunge a quella dei giornalisti democratici come lei, che non hanno nulla da temere dalla mie presunte ed in verità inesistenti “intercettazioni”. Con lei i tanti calabresi onesti che mi scrivono alla mia e-mail e sul mio blog, anche con telefonate e messaggi personali di solidarietà e di affetto, che mi danno la forza di continuare. La Calabria come la Sicilia sono delle regioni meravigliose, come meravigliosa è la loro gente che con forza chiede allo Stato ed alle sue istituzioni un segnale di giustizia. Auguriamoci solo che queste tante persone per bene non rimangano ancora una volte deluse, dopo tutto quello che è successo. Non posso dirle altro nel merito del mio lavoro, per il dovere di riserbo che mi costringe a tacere, anche a costo di subire come sto subendo le accuse, le calunnie e le umiliazioni più infamanti, solo per avere accennato a fare il mio dovere, al servizio di un magistrato giovane ed onesto, qual è appunto Luigi de Magistris. Gli hanno tolto le indagini e mi hanno revocato gli incarichi, ma nessuno riuscirà a togliermi la libertà di pensare e di agire come ho sempre pensato ed agito. In piena libertà ed indipendenza, al servizio dello Stato, della Verità e della Giustizia.

15 febbraio 2009

Vox Ros, Vox Dei. Per la sicurezza di Cosa Nostra

Sicurezza della Repubblica? O Sicurezza di “cosa nostra”? È questo il dilemma che attanaglia gli italiani da quando Francesco Rutelli, presidente del Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ha finito di relazionare sui tabulati dell’ex consulente di Luigi De Magistris, Gioacchino Genchi, citando ad ogni piè sospinto, Pasquale Angelosanto, Ros di Roma, reparto operativo speciale.
Vox Ros, vox Dei, verrebbe da dire. Secondo il Ros, una garanzia per lo Stato. Quale Stato?
Scrive il Copasir:
Il ROS ha accertato che il consulente avrebbe ottenuto le anagrafiche di circa 392.000 intestatari e richiesto 1402 tabulati di traffico storico, nell’ambito di entrambi i procedimenti penali (Why not? e Poseidone)…. Il Comitato ritiene altresì di dover esprimere preoccupazione per i rischi che si possono determinare per la credibilità delle nostre agenzie nei loro rapporti con gli omologhi organismi di intelligence degli altri Paesi.
Quale è lo Stato a cui crede e si sacrifica il Ros di Roma?
Quello del Sisde, ora Aisi ( Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna), di cui pure il Ros di Roma fa parte, quale figlioccio del generale, Mario Mori, che è accusato di essere collusa con Cosa nostra? Da quando non perquisirono il covo di Totò Riina? Oppure quello di riciclaggio di denaro, commercio di stupefacenti, e al mancato arresto dei latitanti? Il Gup di Milano, Andrea Pellegrino, ha rinviato ad un processo la posizione degli indagati, associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, peculato e falso. Insieme al generale Ganzer, successore di Mario Mori, e Mario Obinu, dirigente del Sisde, verranno citati in giudizio con le stesse accuse un magistrato, un capitano, sette sottufficiali, e un appuntato, tutti del Ros. Oppure quello dei fascicoli del Sisde in vendita nella vicenda Telecom? Secondo le accuse dell’ex agente Marco Bernardini? Su tutto questo vige il perentorio “segreto di Stato”, l’insuperabile “sicurezza dello Sato democratico”.
Ma c’è una speranza nei servizi segreti italiani, la nomina di Franco Gabrielli al Sisde, ora Aisi. Quello che fece a pezzi l’ipotesi di Pasquale Angelosanto, il Ros, sic!, che accusò troppo superficialmente l’Iniziatica Comunista, che sarebbe stata il nocciolo duro delle nuove Br, e che avrebbe ucciso D’Antona. Quel giovane poliziotto che quando il generale Mori depose sulla strage di mafia di via dei Georgofili ammettendo che la trattativa dei Corleonesi, per il tramite di don Vito Ciancimino, fu una sua iniziativa solitaria, non gli dette credito. Franco Gabrielli potrebbe far fuori il marcio. E potrebbe ritornare a risplendere lo Stato nella sua reale salvaguardia democratica.
E allora il suggerimento del Copasir:
Anziché utilizzare figure di consulenti privati per lo svolgimento di accertamenti su questioni delicate, sarebbe preferibile che fossero svolti da strutture delle forze di polizia
Suona come “Lo Stato italiano siamo noi, e nessuno ci deve mettere le mani, quantomeno i privati cittadini. Solo noi sappiamo come lasciarlo a galla nella lotta amica con la mafia”.
E se a questo aggiungiamo che gli indagati, nelle inchieste scippate a Luigi De Magistris, sono esponenti sia di destra che di sinistra la frittata è fatta con tutti gli ingredienti. E pronta per essere servita agli italiani. Una frittata di bugie e bugie. Per la sicurezza dello Stato, certo.
Si, ma di quale? Quello democratico? O quello di Cosa Nostra?

PS
Consulta l'inchiesta esclusiva di Norberto Breda sui servizi segreti italiani
http://www.archivio900.it/it/articoli/art.aspx?id=8221

13 febbraio 2009

La Grande Bugia delle intercettazioni continua a mietere vittime


Caro Gianluca Perricone, (http://www.giustiziagiusta.info/)


Mi consenta di chiamarla per nome e cognome, questo è un blog, e non ha, come i quotidiani, o altri giornali anche on line, problemi di spazio o esigenze redazionali. Non credo proprio, come ha scritto nella sua lettera aperta a Gioacchino Genchi - che lei ha per « esigenze redazionali » nominato « GG », proprio come la sua « GG », che sta per « GiustiziaGiusta », che lapus ! – che vi sia il pericolo che, nei tabulati telefonici, di Gioacchino Genchi, lui, o chi per lui (basta che qualcuno lo faccia !), si possa confondere la sua, di lei, (GP, scusi la riduzione, era d’obbligo per non appesantire troppo il periodo con i nomi, sic!), voce, « in un momento di cazzeggiamento » e nemmeno quella di suo figlio, « un bambino piccolo davvero ». Non credo proprio che lei possa incorrere in questo pericolo, quanto piuttosto la voce di tante persone indagate nelle inchieste Poseidone e Why not avocate a De Magistris e che stanno facendo il giro dell'Italia e del mondo, tranne che fermarsi nelle sedi opportune, a Salerno, solo a Salerno. E dire che Cristo era arrivato proprio fino a lì, a Eboli, in provincia. Credo, dunque, che siano tenute nascoste delle "voci inquietanti", rese tali dagli stessi protagonisti per contenuto e motivazione.
Come quella di Giuseppe Chiaravalloti, che lei conosce bene, per averlo intervistato, come vicepresidente del Garante per la protezione dei dati personali, lo scorso 4 dicembre. Una precisazione, prima di proseguire, mi corre d'obbligo, l'intercettazione, di cui più avanti, è una vera intercettazione, fatta non da Genchi ma dalle forze di polizia incaricate dall'ufficio della Procura. I tabulati, invece, sono solo numeri senza conversazione. E per spiegarli mi affido alla sua intelligenza.

Ritornando all'intervista. Se lo ricorda? Lei gli chiese:

Sembra che il sottile filo che separa l’esigenza investigativa e la tutela della privacy si stia sempre più assottigliando: è solo una nostra impressione?

E lui rispose:

«No. Si tratta purtroppo di un dato obbiettivo, ed è conseguenza dell’uso selvaggio – e spesso del tutto illegittimo – della pubblicazione delle intercettazioni effettuate nell’ambito del processo penale; che, mentre per un verso ha consentito di soddisfare la vanità di oscuri inquirenti di provincia di sproporzionate ambizioni, di cronisti in cerca di quella gloria che non erano riusciti a procurarsi con l’attività professionale più seria, per altro verso ha contribuito ad affievolire nei cittadini (specie quelli più incolti o comunque interessati alla denigrazione di certi personaggi) la percezione del valore della “privacy”e della dignità e dell’onore delle persone prima della accertamento sicuro delle loro adombrate malefatte».

Ebbene, Giuseppe Chiaravalloti, ex governatore della Calabria ed ex commissario per l’emergenza ambientale in Calabria, quando gli recapitarono gli avvisi di garanzia, a lui e agli altri, ebbe uno sfogo, chiamiamolo così, con la sua segretaria.

Lei, GP, potrà, obiettare, che si tratta solo di privacy.

Potrà obiettare che forse la pubblicazione dell’intercettazione può essere intesa nel suo “uso selvaggio”, peraltro agli atti delle due inchieste, e forse a conoscenza più del grande pubblico che non delle persone che contano, magistrati che dovrebbero concludere l’inchiesta, e Copasir. (che e’?, si, lo sappiamo tutti cosa è).

Potrà obiettare, interpretando il tenore delle risposte della persona interessata che allora le diede, che la “dignità e l’onore delle persone” vengono scalfiti. Potrà obiettare tutto. Ma in Calabria c’è un detto che taglia la testa al toro del relativismo e del possibilismo interpretativo. E suona così: “Viagnu do muartu e me dice che è vivu”, (“proprio adesso ho appena visto il morto e mi dice (cioè: ha l’assurda sfacciataggine di dirmi) che è vivo”). Dimenticavo, la voce, dicono quelli che l’hanno sentita, non è quella di “un bambino piccolo”, ma bello grosso, e anche vaccinato.

RAFFAELLI Giovanna:- Pronto
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- E.. siccome sei indagata io ti richiamo...
RAFFAELLI Giovanna:- Ahh (ride) allora va bene...
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- (ride) Come va?
….
RAFFAELLI Giovanna:- lo bene, sono a casa (incomprensibile) piovendo
RAFFAELLl Giovanna:- M'ha detto Nunzio che era molto nervoso
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- Sì.. e ma sì certo infatti•• (incomprensibile) questo è un pagliaccio
insomma, ha scomodato un sacco di gente, ha dato fastidio
ad sacco di gente, clamore mediatico... se questo qua.•.•
Se....se Dio vuole che le cose vadano come devono andare••
RAFFAELLI Giovanna:- 8a•• lasciamo stare.•.
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- LO DOBBIAMO AMMAZZARE•..no gli facciamo le cause civili per il
risarcimento danni e NE AFFIDIAMO LA GESTIONE ALLA CAMORRA NAPOLATANA•• non è che io voglio soldi...
RAFFAELLI Giovanna:- (sorride) Ma non dire queste cose..
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- Tutto que... tutto quello che..
RAFFAELLI Giovanna:- Ma non dirlo neanche per scherzo, per carità di Dio....
CHIARAVALLOTI Giuseppe:-.. Tutto quello che riuscite a ottenere è vostro (sorride) FACCIO UNA
DONAZIONE COL NOTAIO...
RAFFAELU Giovanna:- Ma almeno a un ente benefico
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- E uno non può fare una donazione?
RAFFAELLI Giovanna:- Va be' ....
1386
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- Faccio una donazione ognuno fa (incomprensibile) i cazzi suoi...
non è che sono cose nascoste, cose così.. alla luce del sole•..in
maniera clamorosa
RAFFAElLl Giovanna:- Ma come ti vengono in mente (incomprensibile)
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- Ema non è bella come idea? Pronto...pronto•...
RAFFAElLl Giovanna:- ...Sei proprio un pazzo liquido.....(ride)
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- Non è bella come idea? (ride) Pronti?
RAFFAElLl Giovanna:- Eio ti sento, io ti sento...
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- Eio no... ogni tanto va via (incomprensibile)
RAFFAElLl Giovanna:- Giust...giustamente chi ti sta ascoltando pensa che sei un poco pazzo e
ha difficoltà, hai capito?
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- E ma poverino.. è bene che le sappia queste cose
(incomprensibile) la cosa bella è che tutto.. noi l'abbiamo
detto (incomprensibile) alla luce del sole...
RAFFAElLl Giovanna:- Sì ho capito ma tu mettiti nei panni di chi è costretto ad ascoltarci...
pensa che sei proprio pazzo..
CHIARAVALL.OTI Giuseppe:- E poverino..•E poverino, penserà (incomprensibile)...saprà con
chi abbiamo a che fare (incomprensibile)
RAFFAElLl Giovanna:- (ride) ( incomprensibile)
CHIARAVALl.OTI Giuseppe:- SE È CORNUTO NON LO SO..
RAFFAELLI Giovanna:-..Come ti permetti...
CHIARAVALI.OTI Giuseppe:- non ho..non ho prove su questo...
RAFFAELI.I Giovanna:- Mamma mia basta, per carità di Dio...
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- MI AUGURO CHE QUALCUNO ASCOLTI E GLIELO VADA A RIFERIRE INSOMMA
RAFFAELLI Giovanna:- lo non vorrei...
CHIARAVALLOTI Giuseppe:- Però..• indaghe.. INDAGHEREMO ANCHE IN QUESTA DIREZIONE....

Se vuole un aiutino per individuare chi “vuole ammazzare” Chiaravalloti usi l’immaginazione.
Oppure che ne dice di un’altra intervista?

9 febbraio 2009

Shakespeare e la baronessa Pimpa. Il fantasma del Castello De Nobili a Ruggero di Sellia Marina


Le due palme si alzano solenni davanti al “Castello”. Anche lo stemma araldico sovrasta il portone d’ingresso, che non c’è più, come un testimone imperituro. Sono gli indizi più tangibili che resistono al tempo che passa. Al tempo che si trascina ancora un pezzo di storia della decadenza della famiglia De Nobili fino all’oblio.
Ma ci sono ricordi che non si cancellano, che rimangono scolpiti nella memoria degli uomini. Che soffiano ancora sull’altare della storia pretendendo di più. Quel di più che il governo delle Amministrazioni locali non gli ha mai riconosciuto. Che gli ha negato, mentre gli incendi degli anni ‘80 e ’90 e le depredazioni di persone senza scrupoli hanno agito indisturbati.
Riaffiora ancora nel ricordo dei pochi, oramai, che l’hanno conosciuta, la baronessa “Pimpa”, che si affacciava dalla finestra. L’ultimo essere vivente che ha abitato il “Castello”, così lo chiamavano gli abitanti del posto. Il Castello, per via della sua mole e maestosità. Un punto di riferimento importante, dominante e incrollabile, rispetto alle baracche circostanti. A due passi della ferrovia, vero crocevia di comunicazione di allora con il capoluogo e con il resto della Calabria. La baronessa Pimpa insieme a suo figlio Giuseppe De Nobili. Che poi si è sposato con un’insegnante di francese abbandonando quella madre con cui non riusciva proprio a stare. Forse per via del suo carattere. Tanto che aveva riposto la sua fiducia, nella gestione delle sue terre, a un certo Benito Ciocci, un geometra del posto. Che ha provveduto a cedere qualche loro proprietà ad alcuni signorotti di Sellia Marina. Ma il Castello no. E’ lì, testimone inconsapevole della storia di una famiglia decaduta, sotto gli occhi di tutti. E che nessuno vuole ereditare. Nemmeno lo Stato democratico e le sue diramazioni locali che, almeno nei principi costituzionali, sembra avere fame di storia e cultura, di monumenti storici e di tradizioni, perché le sue fondamenta poggiano sulla memoria del passato.
Un incendio durante gli anni ’80 del secolo scorso, doloso ricordano i più informati, ha fatto crollare le aree esterne del palazzo. Poi sono iniziati i saccheggi. Dell’archivio. Della biblioteca. Degli arredi. Di tutto. Pare siano stati trovati anche mucchi di banconote. Predatori senza scrupoli e amministrazioni indifferenti, sembra un paragrafo della famiglia dei Gattopardo raccontata da Tommasi di Lampedusa. Come quella siciliana, anche la famiglia De Nobili, da sempre fedele al governo borbonico, ha vissuto sulla propria pelle gli anni del Risorgimento italiano. Furono proprio alcuni De Nobili che fecero uccidere Attilio ed Emilio Bandiera nel 1844. Quando sbarcarono in Calabria per fomentare una sollevazione popolare. La delazione dei fratelli De Nobili fu provvidenziale per la salvaguardia dello status quo fino alla spedizione dei Mille. I Bandiera furono fucilati il 25 luglio del 1844. E i De Nobili si salvarono dalla condanna di omicidio, ordito ai danni di Saverio Marincola, qualche anno prima.
Saverio Mirancola faceva parte dell’omonima casata nobiliare di Catanzaro che aveva idee politiche avverse a quella dei De Nobili. Appoggiava la politica indipendentistica carbonara. Ma non lo uccisero per questo. Ma perché amava la loro sorella, Adele, o Rachele ricordano altri. Anche questo episodio sembra una pagina uscita dalla letteratura universale di Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Anche Adele, come Giulietta, si affacciava dalla finestra del Palazzo di famiglia (l’ultima a destra della facciata anteriore), ora sede comunale, per incontrare l’amato. Anche Saverio, come Romeo, vi arrivava di sotto con il suo cavallo dagli zoccoli d’argento per avvisare del suo arrivo l’amata. I fratelli osteggiarono fin da subito la passione fra i due. E la recisero con il sangue di lui. Una sera venne appostato nei pressi della salita del rione Samà e con alcuni colpi di carabina segnarono la fine dell’amore della sorella e l’inizio del declino della propria famiglia. Ci fu un processo, furono condannati in contumacia. E si rifugiarono proprio al Castello de “La Petrizia”, rientrante nell’orbita dei feudi della Bagliva, per sfuggire all’arresto e alla condanna a morte. Così è scritto nei verbali del processo. E da lì, dalla spiaggia poco lontana, salparono per l’isola di Corfù. Furono poi prosciolti dalla condanna per la delazione sortita ai danni dei fratelli Bandiera. Poterono così far ritorno così in Calabria. Ma ormai la famiglia si avviava al crepuscolo. Adele si chiuse in un dolore ancora più amaro della morte stessa. Divenne suora nel Convento delle “Murate vive” a Napoli, non per vocazione ma per sentire fino all’ultimo respiro tutte le fibre della sofferenza per la perdita dell’amato. Non perdonò mai i suoi fratelli. E tuttora, a più di 150 anni dai fatti, c’è chi sostiene che il suo fantasma ancora si aggiri nelle stanze del Palazzo comunale, dato che la finestra da cui si affacciava per incontrare Saverio è stata murata.
Sulla statale 106, a ridosso del Castello, sono appena iniziati i lavori per la costruzione di una rotatoria. Il Palazzo verrà solo sfiorato dalle opere in essere. Come se non ci fosse. Come un fantasma inavvicinabile. Lasciato alla mercé del tempo che passa e che tutto distrugge.
Eppure pare ancora di sentire la baronessa Pimpa.
Eppure pare ancora di sentire i cavalli al galoppo dei fratelli De Nobili che arrivano senza fiato da Catanzaro per sfuggire all’arresto e alla morte.

6 febbraio 2009

Anno Zero, anzi no: Avanti Cristo



La trasmissione di Michele Santoro voleva partire da “zero” sulle intercettazioni. Per fare chiarezza. Per arrivare a qualche punto positivo. Ma, forse impaurito dalla sfuriata della compagna Lucia Annunziata sulla par condicio, il conduttore ha organizzato un palcoscenico che non ha raggiunto nemmeno il pareggio. Privo di una linea retta ha sbandato vistosamente per le molte curve sull’argomento. Il coraggioso Travaglio e il super consulente Genchi sono stati dati in pasto, si fa per dire, a tre personaggi che, a vario modo, non hanno permesso che il programma proseguisse per ripartire, ripartire da Zero. Claudio Martelli con il suo nolente charme (probabilmente nelle intenzioni del giornalista doveva servire da mediatore fra Travaglio e Genchi, da un lato, e Ghedini, dall’altra) ha finito per dimostrare di non sapere quale sia la differenza fra intercettazione e tabulato. Una confusione che attaglia pure gli italiani e lui l’ha enfatizzata. Anziché farsi portavoce dei dubbi dei cittadini, ha fatto arretrare di volta in volta l’analisi del problema: e cioè le intercettazioni, il fatto che il governo si stia rimboccando le maniche per ridimensionarle. Giustamente Antonio Tabucchi ha chiesto: “Ma quanti sono gli indagati nel Parlamento italiano? (che si stanno preoccupando di fare la legge? Era questo il senso) e il cosiddetto “archivio Genchi”. Poi Niccolò Ghedini, avvocato di Berlusconi, che ha sbandierato, come sempre, la sua difesa della libertà di stampa e di opinione, e quindi anche della “nuova legge sulle intercettazioni”. Ma quando lo fa sembra te lo dica con quell’accento lord, didattico, quasi femmineo, come se voglia rifilarti una supposta con la vasellina per non farti male. E Pierluigi Battista, nientepocodimenoche vicedirettore del Corriere della Sera, che si è limitato a mettere carbone al fuoco dei numeri degli intercettati, o dei tabulati - proprio quelli che dovevano essere chiariti, del perito di De Magistris per l’inchiesta Why not che ha registrato: evocazione del magistrato, revoca dell’incarico del consulente, trasferimento del pm, del procuratore competente sulla procura di Catanzaro, di altri magistrati, eccetera eccetera - per zavorrare la trasmissione.
Per la “par condicio” Michele Santoro ha sacrificato la denuncia del pericolo della democrazia nel nostro Paese. Certamente non pensava che il varietà di approfondimento fosse poi degenerato in questo modo. Eppure doveva prevederlo con tre morti e due vivi. Non tanto per il numero impari, ma perché i morti, come dicono i medici, pesano di più.

3 febbraio 2009

Chi si ricorda più di Enzo Jannelli?














Che Enzo Jannelli e Luigi De Magistris erano agli antipodi già si sapeva. L’uno il contrario dell’altro. Se la Procura di Salerno ha sequestrato, per indagare sulle accuse mosse da De Magistris, gli atti di Catanzaro, quella del capoluogo calabrese ha risposto con il dissequestro. Una guerra senza precedenti, neanche Bruto avrebbe giustificato il suo gesto se Cesare fosse rimasto vivo. “Volevo solo dissequestrati, dato che tu avevi sequestrato la Repubblica!”, vi immaginate? Comunque si sapeva, ma che a vincere questo piccolo sondaggio fosse stato Luigi De Magistris, quasi un plebiscito per lui, senza neanche una, che sia una preferenza, per Enzo Jannelli, nessuno avrebbe scommesso tanto. Beh, questo fa pensare. Lui, che ora è più di un Carneade, ancora meglio di Dolcino Favi, l’evocatore della prima (Poseidone) al pm napoletano, è ritornato nel dimenticatoio della memoria collettiva?
Ha dato l’imput al presidente Napolitano perché questi parlasse di “vicenda inquietante”. Della cui profonda riflessione poi il Csm fece tesoro, trasferendolo per compensare la sospensione di Apicella, procuratore di Salerno. Ma la bilancia era taroccata sul piano legislativo, e nessun organo competente lo ha fatto valere. Ha compiuto il gesto più importante della sua carriera, e della storia calabrese degli ultimi dieci anni, dando il colpo di grazia alla montagna di finanziamenti europei finiti chissà dove. Certo, non dove erano diretti. Eppure, nessuno, con il beneficio di quanto un blogsondaggio può rilevare, lo ricorda più. Per la cronaca, ecco le preferenze del calabrese dell'anno 2008 dei nostri visitatori: Luigi De Magistris voti: 28; Wanda Ferro: 4; Giuseppe Scopelliti: 3; Giancarlo Pittelli: 3; Agazio Loiero: 2; Enzo Jannelli: 0.
PS
E' ovvio che l'immagine è un fotomontaggio, per chi non lo avesse capito

2 febbraio 2009

Giuseppe Gatì o la fierezza della libertà

Io non conoscevo Giuseppe Gatì. Non ho mai sentito parlare di lui, se non alla sua morte. Io non avevo mai sentito la sua voce. Forse è questo il bello di internet: essere vicini quando si è lontani. Io non sapevo chi fosse Giuseppe Gatì, prima del suo assurdo e tragico incidente. Eppure mi è bastato vederlo in qualche file perché mi comunicasse qualcosa.
Quella fresca e pura voglia di vivere.
Quella fresca e luccicante voglia di indipendenza.
Quella fresca e lancinante voglia di libertà.
Quella fresca e fiera voglia di verità che non si lascia fermare dalla mediocrità dei vari programmi televisivi che riescono a convincerti che, nonostante tutto, la “personalità” di Vittorio Sgarbi può esulare dall’educazione e dai reati.
Quella fresca, e senza sotterfugi, voglia di etica, bay passata dai politicanti di oggi.
Giuseppe Gatì mi ha comunicato che la filigrana del substrato sociale, dell’apparenza, mediata dai visibili mezzi di comunicazione dell’uomo di oggi non vale niente.
Giuseppe Gatì era figlio del coordinatore provinciale del Pd di Licata. Giuseppe Gatì quando si permise di contestare Sgarbi e fu portato via a malo modo dai vigili urbani e dalla polizia, si preoccupò solo del padre. Delle ripercussioni, a livello di partito, nei confronti del padre. Forse questo ha rappresentato un limite alla sua sete di libertà. Ma ancora di più ne fa apprezzare la sua “primitività” di sentimenti, di valori. Era suo padre. Il suo chiedersi nell’intimo l’attendibilità delle scelte. Alla fine la politica viene fatta dagli uomini, non dagli schermi televisivi. E gli uomini si chiedono. Si domandano se è giusto. Se lo domandano! Una verità offuscata e sempre rimandata al giorno d’oggi. Che la velocizzazione dei meccanismi dell’apparenza non ti permette. Eppure, gli stessi meccanismi per convincerti che quel partito è quello giusto, quello vicino alla gente, fanno leva proprio sui sentimenti, che volontariamente loro, autori di simili strategie e abili accalappiatori di consensi, saltano come accessori.
Quando la sua voce si scaglia contro Sgarbi, questi mostra lo stesso copione, non capisce che la sua accusa, di Giuseppe, non era alla stregua dei suoi simili. Partiva dall’animo. E se non fosse stato per gli intervenuti che lo hanno bloccato, probabilmente, a cedere sarebbe stato proprio il famoso critico d’arte perché la sua, di Giuseppe, non era una maschera adottata per secondi fini. Ma per un fine primario. Sgarbi, almeno per onore a tanto candore di libertà, avrebbe lui gettato la maschera. Ma lo hanno fermato. Hanno capito subito che non si trattava del solito contestatore. Lui sì, avrebbe battuto Sgarbi, ecco perché gli hanno chiuso la bocca. All’Italia va bene così. Che continui a essere la televisione la maestra. La televisione dove viene pagata a peso d’oro la presenza di Sgarbi perché piace vederlo litigare, dire parolacce, bestemmiare. Probabilmente alle stesse persone che si vergognano di usare lo stesso linguaggio. Eppure, preferiscono che esca dalla bocca di Sgarbi, e che provano un sottile piacere ogni qualvolta l’interlocutore di turno esce sconfitto da un confronto con il neo sindaco di Salemi. In fondo è anche una loro vittoria. Ma che beffardo il destino! VIVA CASELLI! VIVA IL POOL ANTIMAFIA!